Anche la città di Como si appresta a celebrare, sabato 27 gennaio alle ore 10, presso l’Audutorium della Biblioteca comunale, in via Venosto Lucati, la Giornata della Memoria. Il programma della mattinata prevede, dopo i saluti istituzionali, la consegna di alcune onorificenze; l’iniziativa “Non solo memoria”, a cura della Consulta degli studenti di Como e l’incontro con Ines Figini, comasca sopravvissuta ai campi di concentramento di Mauthausen, Auschwitz-Birkenau e Ravensbrück e insignita dell’Abbondino d’Oro nel 2004.

Nata a Como il 15 luglio 1922, oggi 96 enne, Ines è, tuttora, una forte voce di denuncia contro l’assurda e disumana barbarie dell’olocausto.

Il Settimanale l’ha incontrata nei giorni scorsi. Le abbiamo chiesto quali siano le sue memorie di quei tragici anni.

L’intervista completa comparirà sul numero della prossima settimana. Qui ve ne proponiamo alcuni passaggi.

Ines, qual è il ricordo del suo arrivo nel campo di Auschwitz?

«Era sera. Il primo ricordo che ho vivo è il treno dentro Birkenau e il rumore delle porte arrugginite dei vagoni che si aprono. Poi lo sgomento. Noi ragazze eravamo giovani, ed in un salto dal vagone fummo a terra. Ma c’erano anche donne in stato interessante, anziani, bambini. Rammento il soldato salire sul vagone e a calci o a colpi di frustino far scendere o buttar giù chi non ce la faceva. E così ai piedi del treno la terra era piena di gente urlante di terrore e dolore. “Sono finita all’inferno?” mi chiesi. Una cosa del genere non l’avevo mai vista. Poi gli anziani, le donne in cinta, i bambini vennero messi in fila e caricati su dei camion. Allora non sapevamo dov’erano destinati. Più avanti avremmo saputo che venivano gasati…».

Come fu il primo risveglio al campo?

«“Aufstehen”, “aufstehen”, “alzatevi”, “alzatevi”. Erano le grida della kapò che aveva l’incarico di vigilare su di noi, anche lei armata di frustino, che faceva fischiare nell’aria e batteva sui nostri corpi ad ogni tentennamento».

Come apprendeste in che modo comportarvi? 

«Il disorientamento era totale, non conoscevamo il luogo, gli spazi, la lingua. Dove potersi lavare, dove fossero i bagni. Nessuno rispondeva alle nostre domande perché erano tutte straniere. Così ci affidammo all’esperienza delle altre, seguendole nei loro movimenti. Scoprimmo, tra le altre cose, che la latrina era all’esterno. E accedervi per me fu un ulteriore strazio. Un lungo stanzone con delle buche su cui le donne si posavano per espletare i loro bisogni. Non dimenticherò mai l’immagine di queste donne appollaiate su quelle buche, colte da dissenteria per il freddo intenso e la mancanza di cibo. Lo stomaco mi si rivoltò per l’odore insopportabile, ma poi anche di quel luogo imparai a fare uso e, pian piano, iniziai ad abituarmi all’orrore del campo».

Non ha mai perso la speranza?

«No, ho sempre avuto fiducia che ce l’avrei fatta. Mi dicevo: “Quando tornerò mia mamma troverà un’altra Ines”. E così fu».

Non perdetevi l’intervista integrale sul Settimanale della prossima settimana.