Trasformare i traumi subiti in risorse per riprogettare la propria identità e il proprio futuro. Sembra un ossimoro, qualcosa di impossibile, ma per molti dei richiedenti asilo arrivati negli ultimi anni nel comasco rappresenta l’unica strada verso un cammino di reale integrazione e di realizzazione di sé. Un percorso non sempre facile dove fondamentale diventa l’accompagnamento da parte di psicoterapeuti e persone specializzato; unico antidoto per evitare che i traumi possano cronicizzarsi finendo per sconfinare in episodi di vero e proprio disagio.

Un supporto che, secondo quanto stabilito dai bandi della Prefettura, dovrebbe essere garantito in ogni struttura, ma purtroppo non sempre è così. Lo sanno bene quanti, nei servizi di bassa soglia della città, si trovano a confrontarsi con migranti in chiara situazione di disagio psichico. Numeri fortunatamente ancora bassi, ma in aumento.

Di questo si parlerà, sabato 19 maggio , all’auditorium don Guanella di Como nel corso del convegno “Cicatrici preziose” organizzato da Fondazione Somaschi, Opera don Guanella, Associazione Lachesi, CSV Insubria e CNCA.

Ne abbiamo parlato con Maria Gaffuri, psicoterapeuta e referente comasca dell’associazione Lachesi.

Perché il sostegno psicologico non dovrebbe essere considerato un elemento secondario dell’accoglienza, ma un aspetto primario quanto il cibo e l’alloggio?
«Per almeno tre ragioni. La prima è che l’esperienza migratoria è di per sé un fatto traumatico, perché provoca uno sradicamento dalla propria quotidianità, indipendentemente dalle cause che l’hanno determinata. Nel caso specifico dei richiedenti asilo questo si somma al trauma del viaggio e delle motivazioni che l’hanno generato. Infine, ed è il terzo aspetto, non possiamo negare come la situazione in cui si trovano a vivere in Italia comporti spesso altre difficoltà: penso alle lunghe attese per i documenti, all’incomprensione della burocrazia, al limbo in cui sono spesso costretti a vivere senza certezza del futuro e senza avere le possibilità di essere autonomi. Si tratta di contesti difficili soprattutto per i soggetti più fragili».

Quali possono essere le conseguenze di una mancata assistenza?
«Si possono verificare in alcuni casi varie forme di disagio, anche gravi, come i disturbi da stress post-traumatico o vissuti ansiogeni. Ma più in generale vedo una generale inibizione da parte di molti dei giovani che incontro delle loro capacità. Incontro ragazzi bloccati anche nelle cose più semplici come il prendersi cura di sé, l’imparare la lingua, andare a scuola, proprio perché segnati dal trauma subito. Il rischio è di compromettere il loro percorso di integrazione».

Quanto è importante in questo il lavoro di prevenzione?
«Le conseguenze di un trauma vissuto possono emergere anche molto tempo dopo. Agire in anticipo è importante per prevenire eventuali disturbi o, nel caso di problemi già presenti, evitare la loro cronicizzazione. Purtroppo però, molto spesso, si tende ad intervenire solo quando emergono i sintomi e non prima».

Un lavoro di prevenzione che ha ricadute non solo sui migranti ma anche sull’intera collettività…
«Il rischio è quello di ritrovarsi sul territorio con delle persone che non stanno bene e che possono anche trovarsi a vivere situazioni di disagio grave, persone che non riescono a costruire un proprio percorso di vita. Più si trascurano certe situazioni più diventano drammatiche».

Con un maggior rischio di comportamenti devianti?
«La correlazione non è diretta, ma certamente un soggetto più vulnerabile non ha gli strumenti necessari a reagire a contesti devianti e il rischio di essere coinvolti è più alto. Al tempo stesso cresce il ricorso all’abuso di sostanze, come l’alcol, come tentativo di risposta al disagio vissuto».