Lunedì 24 giugno, alle 8.30, presso il Tribunale di Como si riaccenderanno i riflettori sull’estate comasca 2016. L’estate di centinaia di migranti bloccati alla stazione di San Giovanni. L’estate del disagio, del dolore, della protesta. Ma anche, e soprattutto l’estate del volontariato, dell’impegno civile, della solidarietà. Ed è una parte di questa città solidale che, simbolicamente, andrà alla sbarra lunedì mattina.

Sul banco degli imputati sarà Jacopo, detto Daitone, giovane canturino che scelse di vivere quei giorni d’emergenza da protagonista, insieme a molti altri, offrendo sostegno ai migranti accampati in stazione e denunciandone il trasferimento forzato a Taranto.

È lui a raccontare al Settimanale quell’esperienza e perché oggi debba risponderne alle autorità:

«Sono stato uno delle tante persone che durante l’estate 2016 si attivò per sostenere i numerosi migranti respinti alla frontiera svizzera e accampatisi alla stazione di San Giovanni. Assieme ad alcuni ragazzi attivammo un piccolo gazebo con un punto di ricarica telefoni e una connessione a internet.

La postazione garantiva anche un piccolo monitoraggio dell’area, visto che, nel momento in cui notavamo qualche incidente facilitavamo il contatto con chi poteva intervenire.

Questo contesto ha anche favorito l’incontro tra molte persone e la raccolta di numerose istanze.  Tra i disagi manifestati spiccavano le procedure di trasferimento forzato dei migranti a Taranto.

Procedure messe in atto senza adeguate prospettive, visto che una volta lasciati a Taranto non è che questi ragazzi venissero inseriti in qualche circuito… Si pensi che ci capitò di incontrare delle persone che si erano fatta anche tre, quattro viaggi… A partire da questa situazione abbiamo così pensato di esprimere il nostro dissenso a queste operazioni, che a nostro avviso guardavano poco in faccia alle persone.

Per l’occasione organizzammo un piccolo presidio di denuncia, simbolico, presso la sede Rampinini, che non era nemmeno aperta, a Camerlata, con alcuni cartelli e volantini da lasciare sulle macchine. In virtù del fatto che questo modo di interessarsi alla questione non era stato gradito da alcuni, io come altri fummo destinatari di un foglio di via. Sostanzialmente una misura di polizia che ci vietava il ritorno a Como per un certo periodo di tempo, stabilito per me in un anno.

Provvedimento che non mancò di crearmi qualche disagio: dovendomi recare in città per lavoro, da Cantù, ero continuamente costretto a chiedere dei permessi. Fino a quando decisi di aderire alla marcia della pace 2017 a Como accompagnando gli scout del nostro gruppo.

Il “giro dell’oca” dei trasferimenti coatti dal Nord Italia a Taranto

 

Non lo segnalai alle autorità, da un lato perché era un po’ farraginoso seguire la procedura, dall’altro perché non mi sembrava giusto dover rendere conto di qualsiasi mio movimento. Nel contesto della marcia del personale della Digos deve avermi però riconosciuto e da lì è scattata la denuncia penale.

La cosa mi da un lato mi ha sorpreso,  perché l’attivazione di processo penale solitamente accade alla seconda, terza o quarta segnalazione e in riferimento ad episodi che continuano a rappresentare una minaccia per l’ordine pubblico… Una misura il cui senso, per me, era quasi punitivo, visto che la segnalazione mi è stata notificata a fine settembre, quando la stazione era ormai stata sgomberata ed era già operativo il campo di via Regina, pertanto a mio avviso non sussistevano più le ragioni di un provvedimento del genere.

L’estate precedente, che avevo trascorso accanto ai migranti di Ventimiglia, ero già stato indirizzato da una misura simile. In quell’occasione avevamo presentato ricorso, vincendolo. Mi sono però accorto che quella vittoria non ha contribuito minimamente a cambiare i criteri con cui quella misura viene data. Per questa regione ho deciso, nel caso di Como, di non presentare ricorso per capire se in sede processuale l’emissione della misura verrà ritenuta infondata, sproporzionata e ingiustificata. Dovesse invece andarmi male resterà l’assurdo che oggi io rischio una condanna penale per il fatto di essere stato ad una marcia della pace con degli scout e perché ho dichiarato che caricare delle persone su dei pullman per scaricarli a Taranto non fosse la cosa migliore che si potesse fare».

Come stai vivendo l’attesa del processo?

«Direi un po’ così. Mi riporta a tempi che non sono più il mio presente, che non sto più vivendo, ma di cui riconosco le ragioni e il modo di esserci stato. Per questo la vivo con molta serenità. Rispetto al dire ‘ah, avrei fatto meglio a non farlo, perché altrimenti ci sarebbero state conseguenze di questo tipo”, preferisco dirmi che ho fatto bene a farlo e se ci saranno delle conseguenze ci farò i conti a testa alta».

Jacopo oggi lavora come educatore in una comunità per minori. Tra le iniziative che sta portando avanti anche un progetto a Rebbio di scuola popolare di cittadinanza.

Il 23 e il 24 giugno sono in programma alcune iniziative di vicinanza indicate nella locandina allegata.