“Cosa ci insegna (cosa mi insegna) questa esperienza dolorosa?”.

È  con questa domanda che il vescovo Oscar Cantoni ha concluso la celebrazione della S. messa nella quinta domenica di Quaresima nel Duomo di Como.

Una domanda, ha spiegato il Vescovo, già condivisa in settimana “con tutti i sacerdoti” e ora estesa a tutte le famiglie perché possa diventare elemento di confronto personale e comunitario.

 

“Il Coronavirus può essere interpretato – ha spiegato il vescovo nell’omelia – come un forte appello alla conversione: dei nostri progetti, delle nostre abitudini, delle priorità delle nostre scelte, dell’uso del nostro tempo, dei nostri beni, della qualità delle nostre relazioni, della non protezione della nostra casa comune, il creato, incuranti come siamo stati di fronte alle guerre e del grido inascoltato dei poveri”.

Pur consapevoli di come “anche la nostra fede, dobbiamo ammetterlo con umiltà, è messa alla prova da questi duri eventi”, non manchi dunque, sull’esempio di Papa Francesco, la capacità di farci interrogare da questi eventi.

“È consolante allora per noi – ha proseguito – la certezza della vicinanza, ricca di compassione, di Gesù crocifisso e risorto al nostro dolore di questi giorni, soprattutto con quelle persone che non hanno nemmeno potuto abbracciare i loro cari nell’ora della loro morte e quindi con quanti sono deceduti, in amara solitudine”.

Di seguito il testo integrale dell’omelia

Amati fratelli e amate sorelle, che mi state seguendo mediante la tv e via streaming: anche in questa domenica,  quinta di Quaresima, la Parola di Dio ci dona un messaggio illuminante, che ci permette di affrontare, nella fede del Signore risorto, i giorni drammatici che stiamo attraversando.

La situazione locale, regionale, nazionale, europea, internazionale ci  scuote fin nel profondo, così che facilmente emergono in noi tanti interrogativi, molti dei quali rimasti forse da tempo irrisolti, tra cui la ricerca del senso della vita e della morte.

Visti i numerosi e costanti decessi, siamo oggi drammaticamente esposti al mistero della morte, l’ultimo tabù che forse ancora ci restava. Ogni giorno i vari bollettini precisano: i guariti dal corona virus sono tot, i nuovi contagiati tot, i defunti tot. E intanto tra noi cresce la paura, l’incertezza, un senso di provvisorietà, mai prima sperimentata. 

Anche la nostra fede, dobbiamo ammetterlo con umiltà, è messa alla prova da questi duri eventi.

Sorgono dentro di noi puntuali obiezioni, molto vicine alle osservazioni  ascoltate nel Vangelo di oggi da parte delle sorelle di Lazzaro, Marta e Maria. Entrambe si rivolgono al Signore Gesù con la stessa considerazione: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto (Gv 11, 21; 32). Come a dire: “arrivi solo adesso, quando ormai è tardi!”, anche se Marta aggiunge: “so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà “.

I nostri interrogativi sono un po’ dello stesso tono: “perché Dio non interviene in questa nostra situazione? Perché Dio non ferma il virus? Perché la morte la fa da padrona incontestata? A che cosa vale la nostra vita?”.

Per affrontare tali inquietanti domande, è utile innanzitutto osservare la reazione di Gesù di fronte alle due sorelle, quindi riconoscere la sua commozione quando egli giunge alla tomba di Lazzaro. 


Sottolinea il Vangelo che Gesù “si commosse profondamente”, ed era “molto turbato“, poi un poco più avanti precisa: “Gesù scoppiò in pianto“. Emerge qui in profondità la calda umanità di Gesù, la sua capacità di condividere i drammi e le sofferenze delle persone, restiamo ammirati per l’intensità del legame di amicizia con Marta, Maria e Lazzaro. Gesù, vero uomo e vero Dio, sperimenta dal di dentro la nostra fragilità, condivide il nostro dolore e reagisce con tutta la pienezza della sua umanità. 

È consolante allora per noi la certezza della vicinanza, ricca di compassione, di Gesù crocifisso e risorto al nostro dolore di questi giorni, soprattutto con quelle persone che non hanno nemmeno potuto abbracciare i loro cari nell’ora della loro morte e quindi con quanti sono deceduti, in amara solitudine. 

Noi, discepoli di Gesù, membri della comunità cristiana, cerchiamo di essere come Lui, vicini a quanti soffrono e hanno bisogno di sostegno, di vicinanza, di parole di consolazione e di speranza, così che nessuno si senta abbandonato. Penso con gratitudine ai tanti gesti di solidarietà in atto in questi giorni, in prima linea la sollecitudine di tanti operatori sanitari, ma anche ricordo con ammirazione l’impegno di qualche famiglia, disposta ad accogliere in casa i figli di genitori ricoverati entrambi in ospedale, oppure la scelta di alcuni giovani di mettersi a disposizione degli anziani del paese, recando loro il cibo quotidiano. 

Attraverso la nostra solidarietà Dio non è lontano dai drammi che stiamo attraversando e la Chiesa si presenta come “un ospedale da campo”, così la definisce spesso Papa Francesco. 

Il corona virus non è un castigo di Dio all’umanità, anche se da parte nostra dobbiamo riflettere non poco e giudicare questa esperienza con lo stesso sguardo con cui Dio la vede, per trovare il coraggio di cambiare. 

Il corona virus può essere interpretato come un forte appello alla conversione: dei nostri progetti, delle nostre abitudini, delle priorità delle nostre scelte, dell’uso del nostro tempo, dei nostri beni, della qualità delle nostre relazioni, della non protezione della nostra casa comune, il creato, incuranti come siamo stati di fronte alle guerre e del grido inascoltato dei poveri.

Torniamo ora al testo di Vangelo per una osservazione di grande importanza. 

Gesù tarda ad accorrere presso l’amico Lazzaro. Non sembra interessato al pericolo imminente della sua morte. 

Gesù, ritardando la sua venuta alla casa di Betania, dove restituirà la vita a Lazzaro, è più interessato a far maturare la fede della sorella Marta, la quale, nel suo colloquio con lui, giunge a una triplice professione di fede: “Io credo che tu sei Cristo, il figlio di Dio, colui che viene nel mondo”.

Il richiamo in vita dell’amico Lazzaro non è che un segno anticipatore del prossima fine terrena di Gesù.  Egli rianima il corpo di Lazzaro perché sia manifestata la gloria di Dio, gloria che risplenderà in pienezza con la sua risurrezione.

Gesù abbraccia la croce e sperimenterà una morte dolorosa, fino a toccare con mano l’abisso di lontananza che separa gli uomini peccatori da Dio padre, ma la sua morte spalanca le porte della vita. 

Con la sua risurrezione, Gesù dichiara la morte della morte. Essa non è che un passaggio, il giorno della nuova nascita, che apre sulla vita in pienezza.

In questi giorni mi è giunta da una giovane questa osservazione.                   Noi cristiani, ha affermato, se perseveriamo nella fede, abbiamo la possibilità di “una marcia in più”, perché confidiamo nel Dio della vita e sappiamo che nulla, nemmeno la morte, ci può separare dall’amore di Dio.

Per noi cristiani sperare è un obbligo, frutto di una fede matura, che pur nella fatica del distacco terreno e nonostante la sofferenza, lo smarrimento e la paura, possiamo sempre contare sulla misericordia di Dio, affidandogli quanti ci sono stati strappati improvvisamente dal nostro affetto, perché colpiti dal corona virus.

Se è vero che Dio piange con noi per la situazione amara che attraversiamo, è altrettanto doveroso affermare che il suo amore non si lascia vincere dalla morte, che diventa così un’aurora di vita.

+ Vescovo Oscar Cantoni