«La fortuna accompagna con costanza e premura i miei passi e l’impegno della diocesi di Como nell’avvio di un’esperienza missionaria in Africa, a quanto pare! Il senso è ovviamente ironico, qualche amico mi ha detto questo appena sono rientrato in Italia. Ha certamente ragione. A fine gennaio ho salutato la mia famiglia e i miei parrocchiani per iniziare un percorso di inserimento promettente e bello in Mozambico: due mesi e mezzo dopo, mi trovo sprofondato nella poltrona dei miei genitori ad aspettare l’ignoto tempo della liberazione, in uno stato sospeso, a condividere la vita che tutti stanno facendo di isolamento, distanziamento, smarrimento…»

A parlare è don Filippo Macchi, missionario fidei donum della Diocesi di Como in Mozambico, partito alla fine di gennaio per iniziare il suo cammino missionario in terra mozambicana e rientrato – anzitempo – in Italia lo scorso 5 aprile.

Don Filippo, ci racconti come sono andate le cose?
«La risposta principale ovviamente sta in questo microscopico ma ingombrante ospite che domina i discorsi e l’orizzonte di tanta gente nel mondo: coronavirus. In Africa era un oggetto di chiacchiera e di amara ironia quando appariva ancora lontano, nel luogo dove mi trovavo per i corsi di preparazione era una buona occasione per prendere in giro me, unico italiano presente, e un prete cinese quasi della mia stessa età. Prese in giro benevole, ovviamente, dietro cui c’era preoccupazione: è una tattica africana ben esercitata, affrontare con una risata il nemico che è evidentemente superiore alle tue forze. Questo atteggiamento fa dire adesso alla gente per le strade (distanziamento o meno, cambia poco): “Vediamo un po’ se arriva prima ad ucciderci il coronavirus o la corona fame”. Tornando a me, mentre mi confrontavo con il caldo, le zanzare, la storia nazionale e la lingua macua, restavo aggiornato sulla situazione italiana e mi sentivo un privilegiato a stare in un paese ancora non toccato dalla pandemia, dove la gente passa tutto il tempo fuori casa perché a casa c’è a malapena spazio per dormire, dove i pericoli quotidiani sono tanti ma nessuno si lascia rubare la voglia di vivere. Andavo in alcune parrocchie nel fine settimana, purtroppo non ero autonomo negli spostamenti ma ho fatto tante esperienze belle. A fine marzo cambia tutto e cresce la paura. Ancora adesso non c’è una minaccia concreta, i casi positivi ai test sono pochissimi e la gente muore per le stesse cause dell’anno scorso. I dati non sono attendibili, ma anche rispetto alla situazione di altri stati africani (il vicino Sudafrica è uno dei più colpiti) le cose vanno bene. Comunque la paura è forte e lo stato di emergenza dichiarato dal governo ha cambiato la vita della gente, che fa più fatica a praticare l’arte di arrangiarsi che l’ha sempre tenuta in piedi. I poveri sono ancora più poveri, chi sta un po’ meglio vive un timore crescente».

Quando è maturata la decisione di tornare in Italia?
«Devo precisare che sarei già dovuto rientrare in Italia per rinnovare il visto: fare i documenti stando sul posto si è rivelato più difficile del previsto e avevo un volo prenotato per la fine di aprile. Quando l’incertezza è aumentata e sono stati cancellati molti voli siamo stati spinti ad anticipare i tempi. Così i comboniani e la diocesi di Pordenone, che mi hanno sempre aiutato tanto, hanno trovato un aereo che mi ha riportato a casa alla Domenica delle palme. Un viaggio avventuroso, ma andato a buon fine».

Come stai vivendo la quarantena a Gemonio?
«Fino ad ora ho passato molto tempo a tenere i contatti con gli amici di qui e con le persone che sono giù. Pensando alla situazione in Mozambico mi sento un po’ un traditore che ha lasciato la barca quando il vento ha iniziato a soffiare tempesta, anche se so che non è vero e ho fatto la scelta più giusta, anche obbedendo a chi in Italia e in Mozambico mi seguiva più da vicino. Messa in casa, preghiera, due passi in giardino, si legge un po’ e passa la giornata! Non vi dico niente di nuovo».

Che impressioni hai avuto in questi primi mesi africani? è maturata in te qualche consapevolezza diversa rispetto ai primi viaggi di conoscenza?
«La cosa più preziosa che ho vissuto è stata la scoperta e l’approfondimento di tante amicizie. Non discorsi sbrodolosi, ma la semplice e fattiva vicinanza di gente che ha perso tanto tempo per me. Appena arrivati si è come pesci fuor d’acqua perché bisogna adattarsi a molti meccanismi ignoti in tanti aspetti di vita quotidiana. Con dolore ho saputo della morte di padre Firmino Cusini e ho toccato con mano la montagna di bene che lui e la sua generazione di missionari hanno seminato in questa terra. Poi la sensazione che molta gente ama il Mozambico e la sua Chiesa: un mese di corso sulla Chiesa e la cultura locale mi hanno fatto conoscere tante persone, stranieri e locali, con una ricchezza passata e futura da mettere in campo. Sono rimasto molto ammirato a vedere come queste persone si sentano unite, un vero popolo. Chiaramente, più stai in un luogo e meno lo mitizzi, più conosci le complessità, capisci che non è tutto oro quello che luccica, intravedi alcuni nodi non facili da sbrogliare… Ma la spinta per affrontare certe difficoltà rimane forte, anche perché sono più certo che mai di essere in buona compagnia! E chissà che questo tempo non possa servire per trovare amici con cui condividere il viaggio di ritorno».

Hai già un’idea di cosa farai nei prossimi mesi? Quando pensi di poter tornare in Mozambico?
«Adesso sono qui, a Gemonio in casa dei miei genitori, sta per finire l’isolamento obbligatorio per chi viene dall’estero. La nostra intenzione è di avviare le richieste per i documenti e di tornare giù quanto prima, appena avrò le carte in regola, e collaborare con la parrocchia di Chipene. Quanto durerà il “quanto prima”, capirete bene, è un mistero! Nel frattempo mi metto a disposizione, per quello che può servire».