A Como si continua a discutere sulla possibile apertura di un nuovo dormitorio per senza dimora a poche settimane dalla chiusura dei servizi di accoglienza  invernali in via Sirtori e ad un anno dal voto del Consiglio comunale che impegnava la giunta ad attivare un nuovo dormitorio pubblico.

Oggi vogliamo contribuire al dibattito in corso grazie a questa lunga testimonianza  – pubblica sul numero 24 del Settimanale – di Rossano Breda, operatore della Caritas diocesana di Como, che ha svolto il suo servizio in via Sirtori per due mesi durante il lockdown. Il suo è un racconto di mesi difficili passati in una struttura nata per l’inverno (e l’accoglienza notturna) e che si è trasformata in un dormitorio aperto 24 ore al giorno. Ma è anche una testimonianza che restituisce l’importanza di camminare al fianco di chi è nel bisogno.

Durante i mesi di marzo-maggio, ho vissuto un “tempo speciale” di servizio come operatore della Caritas Diocesana di Como. Per due mesi ero presente tre giorni alla settimana, e successivamente solo al sabato mattino, dentro la struttura conosciuta come “Emergenza Freddo” di via Sirtori a Como, dove una settatina di persone sono stati ospitati durante il tempo di lockdown.
Tempo speciale perché per molte ore al giorno sono stato a stretto contatto con gli ospiti della struttura, con persone che per molti motivi non hanno una casa, un’accoglienza.

La convivenza “forzata” in un ambiente come via Sirtori, una palestra adattata a dormitorio e un tendone con letti a castello, mi hanno costretto ad aprire gli occhi sulla realtà delle persone che vivono in strada. Senza facili semplificazioni e uscendo dai molti pregiudizi che a volte ci portiamo dietro quando affrontiamo il tema delle persone senza dimora.

Dopo un primo tempo di adattamento e inserimento necessari, cercando di entrare il più possibile “in punta di piedi”, in una realtà che conoscevo solo parzialmente, anche con l’aiuto importante di un’operatrice come Marta che mi ha affiancato nel servizio, lentamente ho provato ad essere presenza “propositiva” e non solo di “gestione”.

Quello che mi è sembrato decisivo per la mia esperienza è stato l’ascolto di alcuni racconti di vita che gli ospiti mi hanno lasciato. Avvicinandomi con discrezione, ho potuto ascoltare narrazioni, seppur parziali, di vite segnate da molte esperienze, non sempre costruttive.

Usando parole di don Ciotti, la povertà (non quella evangelica ma quella che determina miseria e disagio sociale) costringe la persona a ripiegarsi su se stessa, impedendole di alzare lo sguardo e guardare avanti. Risollevare quello sguardo che può condurre alla riconquista della dignità perduta, credo sia la dinamica più complessa da accompagnare.

Come altrettanto faticoso è la convivenza forzata (anche dalle esigenze sanitarie legate al tempo del COVID) di tante persone, che non si sono scelte, non abituate a condividere regole e spazi, di cultura e esperienze di vita tanto diverse, che costantemente erano sollecitate ad osservare regole di distanziamento sociale quando nella struttura tutto ciò non è stato possibile se non parzialmente.

A questo aggiungerei l’incapacità di molti nell’affrontare i conflitti, personali e di gruppo, in una dinamica di confronto e riaffermazione, senza però entrare nella logica della violenza verbale e fisica. In questo senso, non si inventa un’accoglienza (seppur sostenuta e promossa in deroga a tante condizioni necessarie, causa pandemia) se non si riesce ad avere un tempo e uno spazio, con risorse coerenti, che favoriscano relazioni significative tra gli ospiti e con gli operatori. In qualche modo si è ottenuto il possibile con il minimo che si aveva a disposizione…

Non sono mancate forti tensioni, problemi di gestione dovute al numero e alle difficoltà personali di alcuni ospiti. Anche gli operatori hanno dovuto entrare in una dinamica di “resistenza” dovuta alle condizioni generali della struttura.

Ma come dicevo, non sono mancati momenti di confronto, conoscenza, approfondimento con alcuni ospiti.

Questo ha suscitato in me la forte convinzione che un operatore Caritas deve giocarsi sulla relazione. Il lavoro principale è “camminare con”, approfondire la conoscenza, cogliere i “pertugi nella parete dove ancora la luce può entrare”, avere la pazienza di stare a fianco ma non sostituirsi (credo che una seria riflessione sia da fare sulle dinamiche distorte che si creano nella prospettiva assistenzialista che purtroppo ha segnato alcune dinamiche dell’esperienza). Tutto ciò per ipotizzare un progetto che vada oltre l’emergenza, che consenta (compatibilmente con le risorse reali della persona) di immaginare un sentiero che conduca fuori dalla condizione di marginalità.

Potrei elencare le fatiche, le paure vissute, la sofferenza psicologica di sentirsi minacciati. Ma preferisco pensare, come ci suggerisce papa Francesco, che ogni prova è un’opportunità.

Per me è stata anche opportunità di rimettere in gioco la mia fede vissuta. Non in una logica di portare qualcuno alla fede, o di dichiarare che la mia azione ha come riferimento Gesù di Nazaret. Piuttosto riscoprire quella dimensione concreta di Matteo 25, delle Beatitudini, che mi costringono come credente a rimettere a fuoco la logica della fraternità, dell’amore evangelico, dell’accoglienza dell’altro come “volto del crocifisso”.

Liberandosi dai romanticismi dell’aiuto ai poveri!

Come operatore Caritas, mi sto continuamente chiedendo quale valenza pedagogica, personale e comunitaria, possa avere un’esperienza di condivisione come questa. Accogliere non è solo “mettere al riparo”; piuttosto mi provoca a rimettermi in discussione rispetto all’incontro reale con chi, soprattutto in condizioni di esclusione e marginalità, vorrebbe provare a riorganizzare le righe distorte della propria vita in una logica di umanità e vita dignitosa, fatta di lavoro, dimora, relazioni.

Ancora una volta, alzo lo sguardo in una dimensione più “ecclesiale”, più plurale e comunitaria, non possiamo perdere l’opportunità di imparare ad essere sempre più “Caritas” proprio da esperienze come l’accoglienza di via Sirtori. Il minimo comune denominatore è l’orizzonte delle possibilità che ogni persona ha di poter migliorare la propria vita. Non fornendo tutto, ma suscitando protagonismo e intraprendenza che liberino dall’assistenzialismo e promuovano forme di autonomia reale.

Nella consapevolezza che nessun operatore cambia cuore e mente di nessuno! Ma può fare lo sforzo di scoprire quei piccoli bagliori di speranza che possono promuovere riscatti che portano le persone a riappropriarsi delle proprie risorse e pensarsi capace di orizzonti forse prima impensabili. Nella consapevolezza che non per tutti è possibile.

La miseria e il degrado umilia, affligge, distorce. A volte bisogna avere l’umiltà di comprendere che l’altro va rispettato anche nella logica del non apprezzamento di quanto fatto.

ROSSANO BREDA
Operatore della Caritas diocesana di Como