Il Covid19 ha svolto la funzione del bambino che, nella celebre fiaba di Andersen, salta su a dire ciò che tutti vedono e che nessuno osa dire (e cioè che «il re è nudo»). Il virus ha svuotato le chiese, e la ripresa della vita sacramentale – per non dire degli oratori – si annuncia difficile. La digitalizzazione delle messe – peraltro benedetta, perché durante il lockdown ha riunito tante famiglie davanti al televisore – sembra anche aver instillato in alcuni (speriamo non in molti) la tentazione della messa «da remoto» (per la quale già si sprecano nomignoli ironici: «bricolage eucaristico», «smart culto», «liturgia in pantofole»…).

Ma attenzione: le chiese si sono svuotate causa il virus, oppure il virus ci ha semplicemente aperto gli occhi su qualcosa già da tempo visibile, ma che preferivamo non vedere? E cioè il segno delle chiese vuote (Tomas Halik)?

La frequenza alla messa è da tempo in calo, eppure siamo andati avanti a celebrarle a ciclo continuo. Bambini e ragazzi sono sempre meno, eppure il Grest è rimasto sostanzialmente quello di trenta anni fa.

Sposarsi in chiesa sta diventando una rarità, eppure è da pochissimo che, nella preparazione al matrimonio cristiano, abbiamo sostituito il «ciclo di incontri con l’esperto» con un tentativo di accompagnamento delle storie personali.

La preparazione a Cresima e Comunione secondo il modello della classe scolastica evidentemente non tiene più, eppure stentiamo a trovarne un altro efficace.

Insomma: il re è nudo. Viva il Covid che ci ha tolto via qualche fetta di salame dagli occhi. Le chiese erano già vuote. O comunque ben avviate per diventarlo…

Naturalmente siamo tutti bravi a fare le diagnosi, non altrettanto a prescrivere le terapie. Eppure proprio l’era del Covid potrebbe suggerirci cose interessanti. Ne accenno una soltanto, ma altre si potrebbero indagare (Sinodo, se ci sei batti un colpo…). Rispetto a una Chiesa a trazione «eucaristica» e «clericale» abbiamo visto all’opera, in questi mesi, una Chiesa a trazione «battesimale» e «familiare».

Beninteso: l’Eucaristia celebrata dal sacerdote resta la fonte e il culmine di tutta la vita cristiana. Però è stato bello vedere famiglie che, a casa loro, forse per la prima volta hanno pregato insieme; vivendo il loro sacerdozio battesimale; offrendo a Dio i propri corpi (a volte ammalati, impauriti, solidali nella cura) nel culto spirituale; facendo della casa una «chiesa domestica» irrorata dal sacramento del matrimonio.

Con, alle spalle, i loro preti che pregavano, intercedevano, telefonavano, confezionavano piccole stille di Parola di Dio finalmente graffianti sulla vita (non le solite barbose prediche). Preti non più in prima linea, non sovraesposti, ma nelle retrovie, intenti a foraggiare di viveri spirituali chi stava in prima linea: che sia forse questa la famosa «Chiesa ospedale da campo»?

Insomma, decisamente un’altra Chiesa. Ovviamente sempre con l’Eucaristia al centro (ci mancherebbe). Ma senza troppa fretta o ansia di arrivarci. Senza l’ossessione dei numeri. E senza la brama di dover a tutti i costi fare qualcosa. «Strutture e programmi a favore di chierici e laici “auto-occupati” potrebbero durare ancora per secoli – ha tuonato papa Francesco alle Pontificie Opere Missionarie –. Ma quella sarebbe una Chiesa già morta». Se saremo bravi a decifrare i misteriosi impulsi di Dio, e non ci addormenteremo sugli allori del «si è sempre fatto così», lo scossone del Covid19 potrebbe rivelarsi fecondo di nuovi inizi.

don Angelo Riva
editoriale del numero 27 del 2 luglio

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