Come più volte scritto nelle scorse settimane il tema dei senza dimora continua a tenere banco a Como. Per cercare di saperne di più abbiamo incontrato il responsabile del servizio Porta Aperta della Caritas diocesana, Beppe Menafra; un punto di vista privilegiato il suo perché dai locali di via Tatti, riaperti al pubblico dal 6 maggio, passano tutte le persone che chiedono di accedere ai servizi presenti sul territorio: dormitori, mense, bagni pubblici, ambulatorio medico.

Beppe Menafra, qual è la situazione dei senza dimora oggi a Como?
«La verità è che noi stessi operatori stiamo cercando di fare il punto sulla situazione dopo la chiusura dei dormitori invernali, posticipata a causa del Covid-19, all’inizio di giugno. Perché i numeri non tornano: con la chiusura della tensostruttura di via Sirtori e di “Emergenza freddo” settanta persone sono finite in strada, ma guardando gli accessi alle mense e alle docce non abbiamo avuto l’aumento che ci aspettavamo. Certamente, come dimostra la situazione di S. Francesco o del Crocifisso, ci sono più persone in strada, ma non sono settanta persone in più. Resta un mistero, probabilmente qualcuno sarà andato via da Como, altri avranno trovato accoglienza da qualche connazionale o amico oppure si sono spostati in qualche stabile abbandonato alla periferia della città».

Ci puoi dare qualche numero sulle presenze?
«Se guardo ai dati delle mense cittadine abbiamo circa 140-150 utenti a pranzo e 120 a cena. Numeri in linea con quelli del periodo precedente al Covid-19».

Non avete registrato un aumento degli accessi alle mense legato a nuove forme di povertà?
«Anche qui serve una precisazione: abbiamo avuto un aumento dei nuovi accessi alla mensa, ma sono presenze molto scostanti. C’è chi accede per qualche giorno, poi non si vede più per settimane e poi torna. Probabilmente sono persone che hanno casa e vengono a ritirare il sacchetto quando proprio non ce la fanno. Ovviamente ogni volta che si accede alla mensa chiediamo loro di passare a Porta Aperta per un colloquio, ma molti non vengono».

E per quanto riguarda i dormitori?
«Come segnalato dall’assessore Corengia nel dormitorio di via Napoleona (49 posti per gli uomini e 7 per le donne, ndr) ci sono alcuni posti vuoti, ma questo è dovuto al fatto che per settimane, a causa delle misure di prevenzione, il Comune ha impedito nuovi accessi. Ora la situazione si è sbloccata e stanno riprendendo gli ingressi: solo per darvi un’idea nella sola giornata di lunedì 6 luglio abbiamo avuto 14 richieste».

In queste settimane la situazione a San Francesco è diventata sempre più difficile. Che idea ti sei fatto?
«Più che ad un problema di numeri, pur importanti, la criticità della situazione di San Francesco è legata alla complessità delle situazioni di chi vi dorme. In una zona ristretta si concentrano persone con gravi criticità, dalle dipendenze ai problemi psichici. Per alcuni di loro oggi sarebbe purtroppo impensabile un ingresso in un dormitorio pubblico perché sarebbero ingestibili. Questo non significa che bisogna lasciar perdere, ma serve una presa in carico e un accompagnamento diverso. In questi anni ho imparato una cosa: vivendo in strada si finisce per assorbire solo il brutto di chi ti vive accanto. Lo stesso potremmo dirlo del luogo. Se dormissi per terra, a San Francesco, in quelle condizioni, sarei anch’io arrabbiato, incattivito. E’ come una spirale, un circolo vizioso, che non fa che annodarsi su se stesso».

Come interromperlo? Non sarebbe utile, come chiesto da più parti, un nuovo dormitorio?
«Sicuramente servono nuovi posti in città, ma l’esperienza dei dormitori invernali ci insegna quanto sia difficile favorire percorsi di accompagnamento quando le strutture sono grandi. La maggior parte delle persone accolte sono uscite cinque o sei mesi dopo esattamente con gli stessi problemi di quando erano entrati. Accanto a strutture di bassa soglia temporanee per l’inverno credo dovremmo favorire la nascita di tante piccole strutture, più che dormitori parlerei di appartamenti dove due o tre persone possano vivere insieme accompagnati da una comunità che se ne faccia carico. Questo avrebbe effetti positivi perché permetterebbe ai senza dimora di instaurare relazioni sane e, al tempo stesso, renderebbe più facile l’accoglienza da parte del quartiere. Basta guardare l’esperienza della Comunità Santi della Carità nel quartiere di S. Agata: questo inverno sono state accolte quattro persone e, a distanza di otto mesi, quando l’accoglienza avrebbe dovuto finire, la comunità non ha voluto che andassero via. Una situazione che potrebbe essere replicata in altre parrocchie o negli appartamenti sfitti che sono nella disponibilità sia di soggetti pubblici che di privati, anche solo nel periodo invernale».