Poco più di un anno e un mese fa, era la metà di maggio dello scorso anno, volava in cielo don Aldo Fortunato. Storico prete di prima linea sul fronte della lotta alle tossicodipendenze. Sua fu infatti l’intuizione di dare vita, 35 anni fa, era il 1982, alla comunità Arca (per conoscerla clicca qui), allora tra le prime comunità di recupero in Italia ad occuparsi di tossicodipendenza. Nei giorni scorsi “Il Settimanale” fatto tappa in via Statale per Lecco, dove la struttura ha la sua sede principale, per capire come si stia vivendo il “dopo don Aldo”.
Pubblichiamo uno stralcio dell’intervista a Maurizio Galli, educatore professionale, da tre anni, consigliere delegato dalla cooperativa sociale Arca alla gestione della comunità. L’intervista completa è disponibile su Il Settimanale che porta la data di giovedì 22 giugno.
«La mancanza di don Aldo – ci spiega Maurizio – è continua e costante. Fortunatamente, però, fu abbastanza saggio e previdente dal pensare in qualche modo al dopo di lui, creando una struttura sociale composta da persone a lui affezionate. Il presidente attuale, rag. Torres, il sottoscritto, e altri membri del consiglio sono presenti in Arca da anni. Io stesso lavoro qui sin dal 1982. Fui il primo educatore ad essere assunto…»
«Quanta strada è trascorsa da allora… – il pensiero di Maurizio corre veloce sul filo dei ricordi -. La comunità nacque da un vecchio reparto dell’Ospedale psichiatrico abbandonato, i primi quindici tossicodipendenti trovati per strada… Noi educatori eravamo giovani diplomati con tanta voglia di lavorare e affascinati dalla personalità di quest’uomo. All’epoca “l’Aldo”, prete, sacerdote cinquantenne, dotato di una cultura umanistica incredibile, era per noi un prezioso punto di riferimento. La sua intuizione fu quella di scegliere di entrare, da subito con un approccio professionale, dentro il mondo della tossicodipendenza, immaginando comunità non solo di contenimento, ma soprattutto di cura. Da qui i tre grandi pilastri sui quali oggi la cooperativa sociale Arca si fonda: attività educativa, attività psicoterapica ed ergoterapia. L’Arca si è così da tempo strutturata su quattro comunità terapeutiche, di cui una femminile (a Fino Mornasco), e tre maschili (tutte nel compendio di via Statale per Lecco). In totale parliamo di cento posti letto e di circa quaranta dipendenti. Una realtà diventata con il trascorrere degli anni una vera e propria piccola azienda».
Com’è cambiata l’utenza in questi anni?
«Trent’anni fa avevamo l’eroinomane classico, giovane, scapestrato, attirato dalla vita sregolata, ma sostanzialmente integro dal punto di vista mentale. Un soggetto sicuramente asociale, a cui non stavano bene le norme di una vita ordinata. Per lui le sostanze erano soltanto un modo per “sballare”. Anche l’età media era piuttosto bassa: tra i 20 e i 25 anni. Oggi questa età è invece molto più alta, da noi è attorno ai 30 anni, con utenti che spaziano dai 20 ai 50 anni. Ma soprattutto non abbiamo più l’eroinomane o il tossicomane puro, ma politossicodipendenti, soggetti cioè che usano un po’ di tutto. Poi, come dicevo, ci sono gli alcolisti, con le loro caratteristiche e complessità. Ultimamente stanno arrivando anche i primi giocatori patologici, il cui rapporto col gioco è quasi sempre associato a qualche altro tipo di disturbo. Nel complesso si tratta dunque di persone con un forte disagio interno, fatto di grosse difficoltà esistenziali, fasi depressive della vita, quasi che le sostanze siano utilizzate in maniera continua per lenire altri tipi di dolori. Persone che si portano dietro una complessità enorme per far fronte alla quale è necessario articolare risposte altrettanto complesse. I soggetti che accettano di venire in comunità sono figure che, così come sono messe, hanno difficoltà nello stare nel mondo, e qui trovano il tempo per mettere mano a quelli che sono i loro aspetti disfunzionali».
Quanto l’essere “don” per Aldo Fortunato ha inciso nel suo e nel vostro lavoro?
«Don Aldo non ha mai fatto pesare il suo essere sacerdote. Soffrì molto quando gli fu tolta la parrocchia, celebrava la messa qui, in una sala riunioni che abbiamo sempre chiamato “chiesetta”, ed era una messa libera a cui poteva partecipare chiunque lo desiderasse, senza alcuna imposizione. Le sue prediche erano di altissimo spessore, mai banali. Lui c’era sempre per la comunità, il giorno e la notte, ad eccezione del venerdì pomeriggio, che dedicava alla preparazione delle sue omelie domenicali. Non ha mai voluto, in un certo qual modo, imporre la sua religiosità, ma non ha mai smesso di essere prete. Nel corso di ogni equipe, di ogni riunione, di ogni confronto con lui sentivi che ti trasmetteva qualcosa, di intenso, di profondo. Sapeva catturarti, coinvolgerti, riempirti. La sua figura carismatica ha contagiato molti giovani che hanno trascorso qui il periodo di servizio civile e che oggi sono figure significative in città».