È inevitabile sentirsi spaesati quando un quotidiano locale titola “Le mani della ’ndrangheta su Cantù” ed è altrettanto inevitabile spaventarsi quando, addentrandoci nei resoconti giornalisti, ci ritroviamo di fronte ad una sorta di battaglia per il controllo di un territorio: nello specifico quello di Cantù e della sua “movida”.

Notizie come queste, purtroppo, accadono con una frequenza tale che dovrebbe sgretolare la radicata convinzione dell’estraneità di questi fatti ai nostri territori.

Eppure, in un copione ormai consolidato, arrivano le dichiarazioni di sorpresa, le prese di distanza, le reazioni piccate o, peggio, incaute sottovalutazioni (come chi, nel caso di Cantù, ha parlato di “parabullismo mafioso”).

Il rischio di tutto questo, però, è che una volta passato il clamore mediatico, le manifestazioni di indignazione, le fiaccolate di solidarietà, le iniziative (purtroppo spesso poco più che formali) per dire che questo o quel comune non hanno niente a che fare con la criminalità organizzata, sul tema torni il silenzio e l’indifferenza almeno fino alla prossima retata, al prossimo blitz, al prossimo arresto.

E allora dovremo ancora una volta ringraziare magistratura e forze dell’ordine perché con le loro azioni torneranno ad accendere la nostra attenzione sopita, salvo ripartire con un nuovo giro di giostra.

Ma di fronte allo scalpore suscitato da fatti come quelli recenti della città brianzola, l’unica domanda che bisognerebbe davvero porsi è: fino a quando un territorio, la sua popolazione e le sue classi dirigenti (politiche, sociali, imprenditoriali) può accogliere notizie di questo tipo con una sorta di distacco e inevitabilità e quando invece si comincerà a ragionare su quali siano gli anticorpi da attivare perché questi fatti non diventino parte della cronaca quotidiana

Quanto accaduto a Cantù ci ricorda ancora una volta una lezione importantissima quando parliamo di presenze mafiose in un territorio. Se oggi la magistratura ci ha rivelato che questi fatti fanno parte di una trama unica volta al progressivo controllo delle attività commerciali del centro brianzolo (a cominciare dai bar e dagli altri luoghi di ritrovo dei giovani) basta andare a rileggere la cronaca dei singoli episodi (accaduti dal 2015 ad oggi) per accorgersi come una rissa, un intervento delle forze dell’ordine, persino una sparatoria venissero liquidate come litigi o fatti personali, indipendentemente che vi risultassero coinvolti nomi già noti alle cronache nere o cognomi pesanti in quanto riconducibili a risapute famiglie malavitose.

Leggerezza? Mancanza di visione di insieme? Oppure paura che avanzando certe ipotesi si vada ad infangare il nome di una comunità? Eppure ancora una volta appare chiaro che l’unico argine contro il ripresentarsi di tali situazione è cercare di essere una società informata e consapevole. Ma scegliere di esserlo è una decisione che solo noi, quotidianamente, possiamo prendere.

Stefano Tosetti – Libera Como

I FATTI

Ottobre 2015 – dopo diversi mesi in cui si susseguono risse e piccole violenze intorno ai locali della movida di Cantù, si raggiunge l’apice con una sparatoria contro Ludovico Moscatello, nipote di uno dei referenti delle famiglie di ndrangheta in brianza.

Maggio 2016 – per l’aggressione a Muscatello vengono condannate due persone, appartenenti alle famiglie calabresi di San Luca e Africo. I fatti vengono considerati piccoli regolamenti di conti dovuti a litigi personali.

Ottobre 2017 – La DIA di Milano inserisce questi fatti in un più vasto disegno di lotta tra le famiglie ‘ndranghetiste presenti in Brianza per il controllo delle attività commerciali.