Domenica 22 ottobre, dalle ore 7.00 alle ore 23.00 (le sedi di voto sono i propri seggi di riferimento, quelli indicati, insomma, sulla scheda elettorale) i cittadini maggiorenni di Lombardia e Veneto sono chiamati a esprimersi su un referendum regionale sul tema dell’autonomia. In Lombardia non è previsto il raggiungimento di un quorum, si sperimenterà il voto elettronico ed sufficiente presentarsi al seggio con la sola carta di identità (la scheda elettorale non serve: anche se presentata a scrutatori e presidente di seggio, in base alle disposizioni del Viminale, non è previsto che venga apposto il tradizionale timbro di annullo). Il quesito che gli elettori troveranno sullo schermo delle “voting machines” (macchine per il voto, una sorta di computer/tablet con schermo “touch“, a sfioro) è seguente: «Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?». Nel video qui sotto viene spiegato in che modo si svolgono le operazioni di voto elettronico.

Potete approfondire l’argomento leggendo questo DOCUMENTO_REFERENDUM elaborato dal Servizio alla Pastorale Sociale della diocesi di Como.

Qui si seguito, invece, vi proponiamo un’ampia riflessione del giudice Giuseppe Anzani sul referendum, i suoi contenuti, le sue finalità, la sua effettiva utilità.

REFERENDUM SULL’AUTONOMIA IN LOMBARDIA: MA A COSA SERVE?

No, non è come quello della Catalogna, il referendum indetto dalla Regione Lombardia (e dal Veneto) per domenica 22 ottobre. Niente secessione, niente proclamazione di indipendenza dall’Italia (alla cui unificazione, per chi rammenta la storia risorgimentale, proprio queste due regioni già soggette all’impero asburgico hanno dato contributo ardente di pensiero e di vite). Si tratta invece di sondare se c’è un desiderio di maggiore autonomia, nello schema del regionalismo costituzionale. Niente ribellioni, niente fantasie di forzare la legalità come a Barcellona; i nostri sono referendum ammessi, dopo il vaglio, dalla Corte Costituzionale. E tra l’altro, sono di tipo “consultivo”, cioè servono a far sapere come la pensa e cosa desidera la gente; ma per far cambiare qualcosa, adesso come dopo, ci vuole una legge del Parlamento, il cui contenuto nessuno può prenotare. Dipende, e dipenderà come prima, dalle intese fra la Regione e lo Stato.

Il nostro sistema è impostato sul principio che la Repubblica è “una e indivisibile”; e che “riconosce e promuove le autonomie locali”. È il disegno di una sorta di armonia, che allaccia le diverse comunità umane, disegnate dalla geografia territoriale, dalla cultura e dalle tradizioni che ne caratterizzano l’identità, in un vincolo più grande e più forte, solidale e sussidiario. Questo sistema ha visto la sua realizzazione aggiornata con la riforma del 2001. Il problema di stabilire “chi fa le leggi in Italia” è stato risolto distinguendo le materie dove le regole le fa lo Stato e sono uniche e valgono dappertutto (per fare qualche esempio: cittadinanza, difesa, moneta, giurisdizione, previdenza sociale ecc. – vedi l’elenco completo nell’art. 117 della Costituzione), e le materie dove le regole le fanno le Regioni, ciascuna a suo modo, e valgono per quella determinata regione. In mezzo ci stanno alcune materie a competenza mista, che per certi aspetti toccano allo Stato e per altri alle Regioni. In questa “zona grigia” o sovrapposta l’autonomia regionale può essere disegnata in modo più o meno largo.

L’autonomia normativa regionale, stretta o larga, ha i suoi pro e i suoi contro. I vantaggi sono l’aderenza delle norme alle esigenze locali (variabili); gli svantaggi sono il rischio di avere un quadro di regole a vestito di arlecchino, là dove sarebbe più pratico uno “spazio giuridico uniforme”. Ecco perché fra le Regioni e lo Stato è previsto un dialogo sulla possibile dilatazione delle competenze locali: lo dice la stessa Costituzione all’art. 116. Un negoziato, e se va in porto, una legge, per cambiare le misure. Ecco dunque il quesito sottoposto agli elettori lombardi (si vota con la sola carta di identità, non serve certificato): «Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?» In Veneto il quesito l’hanno fatto più spiccio in due righe, ma la sostanza è la stessa.

La Costituzione italiana

Il referendum consultivo, da solo, non fa un bel nulla. Quel che fa qualcosa è il negoziato fra la Regione e lo Stato, sempre ché approdi a una legge del Parlamento “a maggioranza assoluta dei componenti. Ma allora a che serve? Serve sul versante della politica per mobilitare un’attenzione e un consenso utilizzando un tema tipicamente seducente, e aggregante. Chi volete che fra i lombardi rifiuti una richiesta di maggiore autonomia, e per giunta “con le relative risorse” (cioè recuperando una quota in più dalle tasse pagate)? E per giunta, in Lombardia il referendum è valido qualunque sia il numero dei partecipanti. Basterebbero quattro gatti (ma non quattro soldi: ci costerà 23milioni di euro per l’acquisto dei tablet su cui votare, e 3 milioni per l’informazione). Sciupati? Risparmiati da Emilia-Romagna, che sta trattando con lo Stato la stessa questione, senza previo referendum? La valutazione non è giuridica, è tutta politica. Dal lato giuridico hanno ragione quelli che rammentano che il referendum non occorre per negoziare, e che il suo esito non serve a scavalcare il negoziato. Dal lato politico, chi si mette alla testa del “sì” dice che avrà più forza al tavolo del negoziato con lo Stato se porterà con sé la voce del popolo consultato. È probabile; ma non è difficile intuire che si fa conto di allacciare al gradimento dell’autonomia invocata con la consultazione referendaria il gradimento per la propria parte politica, che l’ha allestita. È questo ciò che crea passioni o riluttanze politiche incrociate; il resto è più simbolico che reale.

Giuseppe Anzani