La XVII legislatura, prima di spirare, ci lascia in dote un secondo regalo sui temi «eticamente sensibili». Ossia quei temi nei quali è in gioco non (solo) una visione religiosa della vita, ma anzitutto il senso della nostra comune umanità. Dopo la legge Cirinnà sulle unioni civili – provvedimento assai maldestro, nella sua confusività fra legami matrimoniali e legami civili di altro genere – ecco ora la legge sul testamento biologico.

Di fatto il provvedimento licenziato oggi dal Senato in lettura definitiva rischia di introdurre l’«eutanasia omissiva» nel nostro ordinamento, ossia la possibilità dell’abbandono terapeutico del malato. A questo, infatti, conduce il combinato disposto fra due elementi estremamente problematici presenti nella nuova legge.

Da una parte [1] la vincolatività per il medico delle dichiarazione anticipate di trattamento (mentre più correttamente, la Convenzione di Oviedo sulla biomedicina invitava a parlare solo di «wishes», «desideri»).

Dall’altra parte [2] la possibilità di inserire, fra le stesse dichiarazioni anticipate, la rinuncia a qualsiasi trattamento medico: anche a quelli previsti dalla «buona pratica clinica» come azioni non strettamente terapeutiche bensì di «sostegno vitale» (come nutrire e idratare). Ossia azioni mediche di accudimento della persona («to care» in inglese), concettualmente differenti dalle azioni mediche strettamente terapeutiche (che contrastano una patologia: «to cure», in inglese), sospendendo le quali la persona, non più nutrita e idratata, ovviamente muore.

In parole più semplici: se uno lascerà scritto che vuole essere lasciato morire di fame e di sete, debitamente sedato per non provare dolore fisico, ogni medico sarà obbligato ad eseguire queste volontà? Il testo della legge sembra negare questa eventualità, dal momento che stabilisce per il medico la possibilità di sottrarsi a richieste palesemente infondate sotto il profilo dell’arte medica. Mancando però una posizione di garanzia più chiara a favore del medico, circa il suo diritto/dovere di agire secondo «scienza e coscienza»; e mancando la pur elementare distinzione fra azioni terapeutiche e azioni mediche di sostegno vitale, lo scivolamento possibile verso forme di «eutanasia omissiva» appare eventualità affatto remota.

don Angelo Riva – direttore de Il Settimanale

Sappiamo che l’intento della legge è di garantire la libertà di scelta della persona malata ed evitare il rischio di trattamenti terapeutici non appropriati, futili, eccessivamente invasivi e financo crudeli (il cosiddetto «accanimento terapeutico»). Peccato che questi due obiettivi (libertà di cura e divieto di accanimento) erano già abbondantemente ed esplicitamente sanciti e tutelati dalle vigenti leggi e dal Codice di Deontologia Medica, nonché dalla professionalità dei medici che agiscono «in scienza e coscienza».

Ora questi due obiettivi vengono vigorosamente rafforzati, ma a prezzo di infiacchire (per non dire calpestare) due fondamentali capisaldi dell’arte medica, quali il principio dell’«alleanza terapeutica» e il principio della «proporzionalità della cura». Il primo sancisce che la terapia giusta possono stabilirla solo il paziente e il medico, di comune accordo, e «qui ed ora», di fronte alla situazione concreta. Il secondo afferma che le azioni mediche appropriate e non sproporzionate sono di per sé dovute e doverose (quelle di «sostegno vitale» lo sono praticamente sempre).

D’ora in avanti questi due fondamentali principi dell’arte curativa appariranno oltremodo incerti e di dubbia pertinenza. Anche l’indicazione di un fiduciario, incarico di interpretare le volontà del paziente, in assenza dei paletti delle garanzie di cui sopra, apre obiettivamente lo spiraglio a possibili abusi, e prenota un affollamento di contenziosi giudiziari.

Sarà curioso anche capire cosa si potrà ora mettere per iscritto nelle «dichiarazioni anticipate di trattamento». Per esempio si potrà scrivere che non si vuole essere rianimati, se colti da uno shock ischemico o cardio-circolatorio? Oppure che non si vuole essere idratati e alimentati artificialmente se, una volta stabilizzati dopo lo shock, dovessero risultare importanti deficit cognitivi? O motori? E perduranti per quanto tempo (un giorno, una settimana, un mese…)? E si potrà chiedere di non essere nutriti e idratati, neanche con una semplice canula, in caso di Alzheimer non più responsivo? Il testo della legge sembrerebbe escludere queste possibilità, ma l’assenza delle posizioni di garanzia di cui sopra lascia in sospeso questi interrogativi.

Insomma, l’impressione è di un bel pastrocchio. Combinato probabilmente più per calcoli e strategie pre-elettorali che per una reale necessità attinente la disciplina medica o il comparto dei diritti della persona. Che poi si sia arrivati a questo saltando via – con la procedura a «canguro» – tutti gli emendamenti presentati, crea anche qualche imbarazzo sotto il profilo della legalità democratica. E’ grave che si sia arrivati a spianare la strada all’«eutanasia omissiva» senza neanche aver potuto pronunciare in aula questo nome, senza neanche averne di fatto discusso.

 

don Angelo Riva