La Provincia del 2 gennaio titolava «non votate i populisti» con riferimento all’omelia del vescovo Oscar durante la Messa del Te Deum del 31 dicembre. Titolazione sostanzialmente corretta, in quanto riprendeva un passaggio, fra i tanti, dell’omelia. Credo però sia necessaria qualche precisazione, anche alla luce del vivace dibattito che ne è scaturito, per capire di quale «populismo» si parli, ed evitare così di cadere in spiacevoli semplificazioni (sempre in agguato, quando si commenta senza aver letto interamente il testo) nell’interpretare correttamente il pensiero del Vescovo.

Il Te Deum del Vescovo Oscar: forte richiamo alle responsabilità di fede, sociali e civili

Anzitutto occorre precisare che il richiamo del Vescovo sui pericoli del «populismo» si inserisce all’interno di un ragionamento molto più ampio.

Il Vescovo pone anzitutto l’accento sulla cattiva politica che, nei contenuti come nei metodi, ha di fatto innescato un clima diffuso di sfiducia e di malessere nell’opinione pubblica. E’ da questa responsabilità dell’intera classe politica che deriva, da una parte, il fenomeno macroscopico di disaffezione dei cittadini verso la politica e di allontanamento dalle urne (con percentuali di astensione dal voto che superano il 50%); dall’altra, il prendere piede del «populismo» e dell’anti-politica, come espressione sorda e viscerale di un sentimento di protesta.

E’ partendo da qui che possiamo così apprezzare il duplice richiamo rivolto dal Vescovo nel corso della sua omelia: il monito forte e vibrante al dovere di voto e di partecipazione politica (fino a configurare, in caso di diniego, un vero e proprio «peccato di omissione»); e, appunto, la messa in guardia dai rischi del cosiddetto «populismo».

Ma cosa si deve intendere, in verità, con il termine «populismo»?

Se andiamo a leggere per intero il passaggio dell’omelia, troviamo che i «leaders populisti» vengono qualificati come coloro che «assumono responsabilità di governo sfruttando le rabbie e le paure della gente, a causa di promesse di cambiamento seducenti quanto irrealistiche». La specifica è decisamente importante, perché ci induce a distinguere fra due possibili e ben differenti forme di «populismo».

Esiste un «populismo» becero e d’accatto, sloganista e semplificatorio, del tutto privo di cultura e di preparazione politica, che prospera sugli umori, sulle paure e sulle rabbie diffuse della gente. Umori, paure e rabbie che hanno motivi ben validi per esprimersi (per es. i morsi della crisi economica, la sfida epocale delle migrazioni, un certo clima intimidatorio di disordine e insicurezza), ma che chiedono di essere interpretati e guidati, non cavalcati. Servirebbe a ciò una classe politica sapiente e lungimirante, prudente e creativa, moderata e coraggiosa. Cioè l’esatto contrario di un «populismo» parassitario che specula sulla pancia molle della gente, in caccia di dividendi elettorali che non saprebbe poi tradurre in una saggia azione di governo. Il prof. Angelo Panebianco, sul Corriere del 2 gennaio, ha ben fotografato gli effetti rovinosi  di una simile classe politica «populista». Evidentemente a questo «populismo» fa riferimento il Vescovo nella sua omelia di fine anno.

Esiste però un altro «populismo», di tutt’altra foggia. E’ quello che potremmo più correttamente chiamare «popolarismo», e consiste nella capacità, da parte della classe politica, di ascoltare la voce del popolo.

Anzi, la voce «dei popoli». E’ indubbio, infatti, che i meccanismi soffocanti della globalizzazione economica, finanziaria e mediatica, stanno risvegliando nella gente, per reazione, una nuova voglia di localismo, di tradizioni territoriali, di genuinità popolare, di autenticità culturale. Non perché «piccolo è bello», ma perché ognuno di noi, benché immerso (e senza pentimenti) in un orizzonte aperto e plurale, universalista e globale, sente il bisogno e l’importanza di avere delle radici, un’identità, un’appartenenza, una storia. Soverchiante è il peso dei grandi colossi bancari internazionali, l’egemonia dei mercati finanziari e del commercio globalizzato, il potere di controllo e di indirizzo esercitato dai giganti dell’informatica sui consumi e sulla psicologia degli individui.

Di fronte a questi eccessi scompensati della globalizzazione, e di fronte soprattutto all’establishment che ne detiene il potere, i popoli indubbiamente esprimono oggi una domanda nuova. Quei leaders «populisti» capaci di intercettarla, questa domanda, di interpretarla e di farla crescere nella prospettiva di un vero «bene comune internazionale» (di cui parlava già san Giovanni XXIII nella Pacem in terris, 55 anni fa), sono tutt’altro che da temere. Ne abbiamo anzi bisogno.

Un chiaro banco di prova? Certamente oggi la capacità di gestire con saggezza e lungimiranza l’ondata migratoria. Ignorare il disagio dei popoli dove i migranti approdano sarebbe uno sbaglio, ma strumentalizzarlo sarebbe deleterio. Il leader «populista» ne fa dardo infuocato per la sua retorica fiammeggiante. Il vero «popolare», invece, ricerca armonie fra le voci dei popoli. Sia quelli che arrivano, sia quelli che accolgono. La sua logica è inclusiva, non contrappositiva. Il suo orizzonte è l’integrazione, non lo splendido (e impossibile) isolamento.

La distinzione fra vero e falso «populismo» richiama quindi una questione molto più complessa, ma assolutamente cruciale nell’attuale dibattito politico: quella dell’esatta calibratura fra «globalismo» e «sovranismo».

Penso che il giusto equilibrio fra un «universalismo» che non mortifica le identità locali, e un «localismo» che non si avvita in un isolamento fuori dalla storia, sarà «il» tema della prossima campagna elettorale. Lo abbiamo già visto con Trump, la Brexit, i quattro Paesi di Visegrad (Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria), la Catalogna, l’Austria…. Molto più dell’antico e ormai obsoleto schema «destra-sinistra», ormai superato nei fatti dall’evidenza di politiche sociali (un tempo bandiera della «sinistra») presenti anche a «destra», oppure di politiche liberali e libertarie «radical-chic» (un tempo bandiera della «destra») sposate ormai appieno anche dalla cosiddetta «sinistra».

La linea di displuvio, oggi, passa fra «globalisti» e «sovranisti». Un saggio «popolarismo» potrà guidarci a trovare un fecondo punto di sintesi. Viceversa un bolso «populismo» procurerà solo dei guai. Grazie al Vescovo per avercelo ricordato.

don Angelo Riva

direttore de Il Settimanale delle Diocesi di Como