“Il Malato di Alzheimer e l’ambiente che lo circonda”. Sarà questo il titolo dell’incontro in programma sabato 13 aprile, presso la sede di Confartigianato Como, in viale Roosevelt 15. L’argomento, legato a tema delle demenze, è più che mai di attualità. Lo spunto è la XII Giornata Nazionale di Prevenzione e Predizione dell’Alzheimer organizzata dall’ Associazione Nazionale Anziani e Pensionati di Confartigianato. Non si parlerà solo di Alzheimer, ma anche di altre forme di demenza, in preoccupante espansione. Tra i relatori che interverranno nel corso della mattinata ci sarà anche il dott. Mario Guidotti, neurologo e direttore dell’Unità Operativa di Neurologia dell’ospedale Valduce.
Dott. Guidotti, 13 aprile si celebrata la giornata della prevenzione dell’Alzheimer… è corretto parlare di prevenzione di questa malattia?
«Ad essere celebrati sono i comportamenti che possono essere attuati da chi accompagna i malati di Alzheimer, malattia della quale non esiste prevenzione. Si tenga conto che l’Alzheimer è diagnosticabile soltanto dal punto di vista anatomo-patologico e rappresenta circa il 54% di tutte le demenze. Un’adeguata prevenzione è invece possibile per molte altre forme di demenza che, se riconosciute, sono in parte curabili. Mi riferisco, ad esempio, all’idrocefalo normoteso o ai tumori a lento accrescimento; o ancora a demenze da ipotiroidismo, da disturbi del metabolismo o da carenze vitaminiche. Tra le forme di demenza, oggi in crescita, che è possibile prevenire ce n’è una che definiamo de-menza sociale».
Di che cosa si tratta?
«Altro non è che un cattivo uso del cervello, su base sociale. Due sono i fattori di rischio, molto importanti, e di cui è essenziale tenere conto per evitarne l’insorgenza: la solitudine e la depressione. La depressione è in sé una malattia che ha come complicanza più frequente proprio la de-menza, la “perdita della mente”. In parole povere il suo cattivo impiego porta ad una disconnessione dei circuiti ed a una condizione di declino cognitivo. Alla stessa condizione può portare la solitudine, ovviamente in età avanzata, che rappresenta un fattore di rischio per la demenza in quanto il nostro cervello è in continuo interagire con l’ambiente circostante. Mentre il giovane che vive da solo è continuamente sollecitato da interazioni di carattere professionale, sociale e ludico, non accade lo stesso per l’anziano».
È un fenomeno in crescita?
«Direi proprio di sì, e ciò è dovuto al fatto che la persona, ad un certo punto della vita, “smette” di usare il cervello. Il termine è ovviamente improprio, perché il cervello serve anche per camminare, muoversi… Col tempo, però, a ridursi, oltre al movimento, sono anche gli stimoli cognitivi. Fenomeno che può manifestarsi, con una certa frequenza, non solo in chi vive da solo, ma anche in situazioni di coppia, dove uno dei due coniugi finisce per prevaricare sull’altro…»
Ma come la società può arginare l’estensione di questa forma di demenza?
«Credo sia importante sensibilizzare. La gente finisce per “indementirsi” senza accorgersene. Un uomo che ha questo tipo di comportamento si trova ad un certo punto, sui 75-80 anni, senza più sapere che giorno sia, perché si è lasciato portar via la sua quotidianità. La prima cosa allora che la società può fare, e mi rivolgo in particolare ai medici di medicina generale, è sensibilizzare la gente a mantenere il più possibile una socialità attiva. Il che significa leggere, ripetere, studiare un pochino, giocare a carte, fare conversazioni un minimo impegnative rievocando eventi… Ad esempio io vedo molti anziani che frequentano la chiesa, allora chiedo loro di raccontarmi il Vangelo della settimana scorsa… semplici feedback di memoria a breve termine. Su questo tema è importante sensibilizzare anche la famiglia. Il coniuge, se c’è ancora, deve cercare di compiere un passo indietro, evitando un approccio assistenziale, ma piuttosto proattivo, stimolante. E molto possono fare anche i figli che, quando vedono un anziano che sta diventando fragile, tendono ad aiutarlo doppiamente (dammi le cose della banca, le bollette… che ti faccio tutto io), assumendo un atteggiamento protettivo che di fatto, però, rischia di privare il familiare di stimoli importanti per la sua vita. Lo riscontriamo spesso anche noi quando, qui in Valduce, vengono degli anziani a svolgere dei test minimi accompagnati dai loro familiari. Non di rado capita che il familiare risponda al loro posto, o minimizzi il problema (no ma guardi… lo sapeva che giorno è, non gli viene in mente ora…) anziché di farlo emergere».
Leggete l’intervista completa sul Settimanale di questa settimana. Buona lettura!