«L’uccisione di Giulio, certo, ha cambiato tutto: oggi, per esempio, ci capita, come in passato, di entrare nelle chiese e fotografare le Madonne, con il Cristo morto tra le braccia…E ci troviamo a pensare: almeno Maria ha avuto la possibilità di tenere suo figlio tra le braccia».
Il 25 gennaio 2016 – 5 anni fa – veniva rapito, torturato e ucciso in Egitto il ricercatore Giulio Regeni. Leggere oggi le parole e i racconti di Paola Defendi e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, è un modo per continuare a chiedere verità per lui e per tutti i “Giulio del mondo”. Il ricercatore aveva 28 anni.

«Ho visto sul volto di Giulio tutto il male del mondo», racconta la madre Paola nel libro Giulio fa cose scritto a sei mani con il marito e la loro avvocata Alessandra Ballerini.

Lei che è riuscita a riconoscere il volto sfigurato del figlio solo dalla punta del naso, da quei lineamenti inconfondibili per una madre. Erano passati quattro giorni dal ritrovamento del corpo e rientrati in Italia questi genitori iniziavano una battaglia che non avrebbero mai voluto combattere.

Non si sono fermati nemmeno durante la pandemia: hanno smesso di macinare chilometri su e giù per l’Italia, ma non di intervenire a dibattiti, incontri, manifestazioni questa volta in formato digitale. Tutto quanto in loro possesso per continuare a cercare la verità e tenere accesi i riflettori. Una lotta impari contro chi vorrebbe far calare sull’intera vicenda il velo pesante dell’oblio. Perché l’unica verità appurata è che quanto accaduto in quel gennaio di cinque anni fa continua a imbarazzare.

In Egitto dove le autorità hanno dovuto ammettere che Regeni era stato pedinato per alcuni giorni dai servizi segreti perché sospettato di essere una spia (dopo la denuncia, falsa, presentata da un loro collaboratore, impegnato nel sindacato degli ambulanti) e dove sono tante, troppe, le storie di oppositori e attivisti arrestati e, a volte, uccisi. Ma anche in Italia dove, al di là delle dichiarazioni di facciata, la politica non è sembrata disposta a forzare troppo la mano e compromettere i rapporti economici e politici con il governo egiziano di El-Sisi.

Sul piatto non solo gli equilibri politici nel Mediterraneo, ma anche importanti commesse per le industrie della Difesa e i contratti petroliferi di Eni.

Per la verità l’Italia ha provato, soprattutto in una prima fase, a fare qualche pressione richiamando l’ambasciatore (poi rinviato il 14 agosto 2017) e chiedendo verità, ma ottenendo solo una parziale collaborazione dagli inquirenti egiziani.  Ma cinque anni dopo i coniugi Regeni ancora non sanno chi ha ucciso loro figlio. Con un atto di accusa lungo 94 pagine il 10 dicembre scorso la procura di Roma ha avviato il processo in absentia contro i quattro agenti della National Security egiziana che, secondo la stessa procura, avrebbero torturato e ucciso Giulio Regeni convinti che fosse una spia. Una ricostruzione respinta al mittente dalla Procura del Cairo che ha bollato come “errate” le conclusioni degli inquirenti italiani.

Cinque anni dopo la battaglia per la verità di Paola e Claudio continua e non sono soli. Come hanno scritto tempo fa al Presidente della Repubblica Matterella: «È un’esigenza corale, non una faccenda privata. Nessuno potrà ridarci Giulio ma non possiamo permettere che la nostra dignità di italiani venga offesa con bugie e silenzi». Perché, oggi come ieri, «Giulio ci costringe a decidere da che parte stare».

Michele Luppi