Nei giorni scorsi abbiamo parlato di quanto sta accadendo fra Russia e Ucraina con il giornalista di “Avvenire”, inviato di guerra, esperto di migrazioni e comasco d’adozione Nello Scavo. È rientrato da poco dalle terre martoriate da bombe, proiettili e strategie scellerate, come il catastrofico abbattimento della diga di Kakhovka, che ha portato morte e distruzione in una regione, quella di Kherson, costantemente nel mirino dell’artiglieria russa… Nelle ultime ore la sua riflessione ha trovato tante, troppe conferme.

Le armi non tacciono, anzi, si sono moltiplicate le incursioni e intensificate le modalità: l’uso delle micidiali bombe a grappolo, l’attacco a Odessa – definito terrorismo dal vescovo cattolico latino monsignor Stanislav Shyrokoradiuk – alla cattedrale ortodossa della Trasfigurazione – patrimonio Unesco e legata al patriarcato di Mosca –, i droni sulla capitale russa e la Crimea. Il nostro incontro con Nello si incastra nel puzzle di un’agenda fatta di appuntamenti e ritrovi, in occasione dell’intervista con la trasmissione di approfondimento religioso “Sulla Via di Damasco”, nella cornice della Basilica di Sant’Abbondio a Como (in onda domenica 6 agosto alle 8.30 su Rai3), e alla vigilia di un colloquio con un interlocutore molto importante: papa Francesco. È stato Nello stesso a scriverne su “Avvenire” e sui social.

Scavo era nella delegazione di Mediterranea Saving Humans (l’Associazione di Promozione Sociale che salva vite umane in fuga da guerre e povertà via mare e via terra) che il pontefice ha accolto in Santa Marta la mattina del 21 luglio: commovente l’incontro con Bentolo, profugo camerunense che, prigioniero nei lager libici, è stato di aiuto e conforto a decine di compagni di cella.
Dopo aver recuperato fortunosamente un cellulare, Bentolo riuscì a far pregare alcuni giovani cristiani, ormai in fin di vita, mettendosi in contatto con don Mattia Ferrari, cappellano di Mediterranea Saving Humans e presente all’udienza con papa Francesco.

Nello, parlavamo di pace… cosa ne pensi dell’impegno della Chiesa, con il cardinale Matteo Zuppi inviato speciale del Santo Padre, a Kiev, a Mosca e poi a Washington?
«Come dicevo prima, in questo momento immaginare la pace come fine delle ostilità non solo è prematuro ma anche molto lontano dalla realtà. La missione del cardinale Zuppi mette al centro le persone e punta a ottenere obiettivi umanitari, in particolare la restituzione di migliaia di bambini deportati e la liberazione di centinaia di prigionieri. Il fatto che a riceverlo a Washington sia stato il presidente John Biden ci fa capire quanto l’azione della Chiesa sia presa sul serio. Di solito, questo tipo di trattative vengono svolte da figure intermedie, di altissimo profilo diplomatico, che lavorano lontano dai riflettori. Anche a Mosca il cardinale Zuppi ha incontrato soggetti vicinissimi a Putin, il suo consigliere diplomatico e il patriarca Kirill. È andato bene il primo incontro con Volodymir Zelensky: l’Ucraina ha talvolta guardato con diffidenza alla posizione della Santa Sede, pur apprezzando gli aiuti e le parole del Papa per le popolazioni aggredite. Ma si è espressa positivamente anche rispetto ai colloqui del cardinale Zuppi con la Russia. È un cammino complicato».

Nelle ultime settimane abbiamo visto anche il tentativo, più o meno vero o riuscito, di un golpe interno sul fronte russo…
«Quando combatte, Putin manda messaggi non solo all’Ucraina e al mondo, ma anche all’interno della Russia. Non sappiamo ancora quale significato dare all’azione di Prigohzin, fatto sta che una serie di episodi ci stanno dicendo che Mosca non è così inviolabile. I primi a rendersene conto sono i moscoviti stessi, non solo per gli attacchi con i droni, ma anche per una serie di limitazioni alla vita quotidiana. Mosca è una città moderna, però i moscoviti non possono più usare le app più semplici, dal bike sharing alla prenotazione di un taxi perché, per motivi di sicurezza, è stato sospeso il servizio GPS. E poi ci sono i fattori economici, industriali, la gestione degli uomini al proprio interno e la questione dei combattenti. L’esercito resta nelle retrovie, la controffensiva russa procede a rilento e si stanno arruolando migliaia di giovanissimi, appena diciottenni. Nelle prime settimane di conflitto c’era la convinzione di una guerra lampo: è passato un anno e mezzo e ci sono migliaia di uomini che tornano indietro o per il camposanto o per una vita da persone pesantemente invalide. La tensione emotiva è altissima: in Ucraina certamente ma anche in Russia».

Qual è l’immagine più forte che ti porti da questo tuo ultimo reportage dall’Ucraina? Ci sono paure che non avevi ancora provato?
«Certamente la vicenda della diga di Kakhovka ci ha messo tutti alla prova. Una distruzione mai vista, che perdura e della quale non si ha piena contezza, perché il fango ha coperto tutto e chissà quante vittime ci sono là sotto e delle quali non si sa più nulla. Personalmente quello che comincia a farmi paura è l’eccessiva confidenza. Se ti abitui alle bombe si abbassa il livello di prudenza. Questa guerra la stiamo raccontando dal primo giorno e ci si spinge sempre più in là, per trovare la notizia di cui nessuno aveva ancora parlato e per evitare che nell’opinione pubblica scatti un meccanismo di abitudine… e tutto questo mette a rischio ancora di più la vita e il lavoro dei giornalisti».

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