Da qualche giorno padre Francesco Gonella, dopo 12 anni trascorsi a Como nella Missione di Como al “Gesù”, ne ha intrapresa una nuova. È infatti partito alla volta di Livorno, dove proseguirà il suo servizio ai poveri in una parrocchia della città, declinando nella concretezza delle opere il carisma di San Vincenzo de’ Paoli, il religioso fondatore della Congregazione della Missione e delle Figlie della Carità, nonché del Movimento Laico Vincenziano e patrono di tutte le associazioni di carità. Abbiamo incontrato e salutato padre Francesco in via Tatti, poche ore prima della sua partenza.

Padre Francesco, partiamo dall’inizio… Quando è arrivato a Como?
«Era il 2011, arrivavo da Chieri, comune della città metropolitana di Torino, dove mi occupavo del volontariato vincenziano e dell’economia della Casa in cui risiedevo».

Che realtà ha trovato a Como?
«Una Casa della Missione viva, caratterizzata dalla presenza di diversi servizi per i poveri: dalla mensa, alla Casa Famiglia per le donne in fine pena, per favorirne l’inserimento sociale. Con la collaborazione di Francesca Torchio abbiamo proseguito queste opere sociali. È stato per me un impegno straordinario, per il quale devo ringraziare la Diocesi di Como, che mi ha accolto, e nella quale ho cercato di essere un missionario vincenziano, curando soprattutto le relazioni, a cominciare dai poveri, nella mensa festiva di via Lambertenghi; dalle donne della Casa Famiglia e dai volontari della mensa festiva, preziosi collaboratori. Ho cercato relazioni con il Vicariato, partecipando al cammino della fraternità sacerdotale, e anche con i religiosi e le religiose, in particolare con le consorelle Figlie della Carità. Ho creduto nei giovani, accompagnando il gruppo Legàmi. E non posso non ricordare il gruppo Santa Luisa delle vedove, che hanno collaborato con me nella istituzione dell’Ordo Viduarum in Diocesi. E non sono mancate le relazioni con i fedeli della Chiesa del Gesù, offrendo loro la Parola di Dio e il Pane della vita, il perdono nel sacramento della Riconciliazione, la cura nella liturgia e il regalo della musica attraverso lo strumento prezioso dell’organo, in collaborazione con il caro maestro Mario Longatti e i giovani organisti Riccardo, Pietro, Luca».

Come sono cambiate le povertà in questi 12 anni e com’è cambiata la capacità di rispondere al bisogno?
«Quello che in questi anni è maturato più che cambiato, secondo me, è stato in particolare l’atteggiamento nei confronti di chi ha bisogno di aiuto. Ci si è liberati da ogni forma di pregiudizio e condanna, imparando a considerare la persona unicamente come fratello o sorella. Assieme ai volontari con cui ho collaborato siamo andati ripensando lo stile e la modalità di rapporto con le persone in difficoltà, al punto da vivere con loro un’esperienza di condivisione, più che di assistenza. Condivisione sul piano della relazione e della responsabilità. Tante espressioni di questo stile nuovo, che l’enciclica “Fratelli tutti” di papa Francesco conferma, le ho trovate anche negli operatori della Caritas, negli operatori laici, anche non confessionali, e negli amici di don Roberto Malgesini, con i quali ho condiviso due anni di cammino, su richiesta del Vescovo, dopo la morte di don Roberto. Una presenza discreta la mia, tra loro, senza la pretesa di fare nulla, ma semplicemente a testimonianza che la Chiesa c’è. L’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco porta in sé un messaggio straordinario che ho cercato di far passare anche ai giovani ragazzi di Legàmi».

padre Francesco alla mensa di solidarietà di Casa Nazareth

Quanto è stato importante, nell’approccio alle povertà e al bisogno, la dimensione della rete, anche a livello ecclesiale?
«Rispondo a questa domanda non con delle argomentazioni teoriche, ma con un esempio concreto di che cosa significa lavorare in rete e con spirito di solidarietà: Casa Nazareth. Padri della Missione, Caritas, Incroci, Casa Vincenziana e Suore Guanelliane hanno voluto, assieme, dare vita a questo spazio per la distribuzione dei pasti ai poveri della città. Il progetto è nato da una necessità, a cui è seguita una domanda e, immediatamente dopo, un’azione sinergica. La necessità è stata quella, da parte della Casa della Missione, di dover vendere lo stabile dove era presente la mensa. Da lì è scaturita la domanda: dove accogliere gli ospiti della mensa festiva e i migranti? Perché non provare a pensare ad una mensa unica, con una concezione diversa dell’accoglienza: non più in strada, ad aspettare il turno, ma in un giardino… La risposta corale degli Enti che ho citato ha portato alla realtà di Casa Nazareth. La rete dell’accoglienza e del servizio ha funzionato, dentro un contesto sinodale. La mensa è stata uno dei segni concreti del cammino del Sinodo. La prova che camminare assieme porta buoni frutti: una mensa capace di un’accoglienza nuova, in cui si mangia a pranzo e a cena, assieme, in spazi adeguati, ottimizzando il servizio. Sicuramente si potrà migliorare, ma si tratta di un risultato prezioso nato da un modo di operare efficace».

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