Questa sera all’oratorio di Rebbio a Como la testimonianza di Gennaro Giudetti operatore umanitario autore del libro “Con loro come loro”. Il giovane rientrato di recente da Gaza racconterà la sua esperienza in contesti di crisi.
«Nella mia vita di operatore umanitario ho visto tanti luoghi di crisi: Afghanistan, Yemen, Siria, Libano, Colombia, Congo ma in nessun posto ho visto quello che un mese fa ho visto nella Striscia di Gaza. Ho visto gente raccogliere brandelli di corpi dalle macerie, persone morire di fame e di sete. Quello che succede a Gaza non ha paragoni oggi nel mondo». Gennaro Giudetti è un giovane operatore umanitario con alle spalle quasi quindici anni di attivismo in contesti internazionali. Insieme alla giornalista Angela Iantosca ha da poco dato alle stampe un libro intitolato “Con loro come loro – storie di donne e bambini in fuga” edito da Paoline editoriale (190 pagine, 15 euro) che lo scorso 24 settembre ha presentato nel corso di un incontro pubblico a Rebbio.
Com’è nato questo libro e la scelta di raccontarsi?
«Tutto nasce nel 2020 quando due registi – Daniele Cini e Claudia Pampinella – hanno realizzato un documentario (“La febbre di Gennaro”, ancora disponibile su Amazon Prime Video) sulla mia esperienza come volontario prima e operatore umanitario poi: dall’attività con l’Operazione Colomba, il corpo nonviolento di pace dell’associazione Papa Giovanni XXIII, in Colombia ai soccorsi nel Mediterraneo passando per il Libano, il Congo, la Siria. Portando questo documentario in diverse scuole mi sono sentito spesso dire da docenti e studenti: perché non scrivi un libro in cui condividere più a fondo queste esperienze. Così è nato: “Con loro come loro”.
Il libro si apre con il racconto duro dei salvataggi nel Mediterraneo. Scrivi: «Cinquantanove: questo è il numero dei migranti che riusciamo a portare a bordo. Quarantasette sono saliti sulla nave libica. Non so quanti sono morti. Chissà quanti ne nasconde il Mediterraneo. Io e gli altri rimaniamo per ore nel mare alla ricerca dei cadaveri. Quelli che troviamo li consegniamo alla nave militare francese: noi non abbiamo spazio per tutti quei corpi. Perdiamo i vivi e diamo i morti, tranne il bambino, che portiamo con noi e mettiamo nel congelatore. Sulla Sea Watch 3 c’è silenzio. Nessuno parla…Quanto sono lontani questi momenti dalle polemiche che, ancora troppo spesso, circondano il lavoro della flotta civile impegnata nei soccorsi nel Mediterraneo?
«Quando ti ritrovi nel mare circondato da persone che stanno per affogare e tu devi scegliere chi salvare. Devi scegliere quale mano afferrare senza sapere se, quella accanto, sarà ancora lì poco dopo. Quando vivi questo tutto il resto perde senso. Non c’è nemmeno rabbia solo voglia di andare oltre e continuare il proprio lavoro. Continuare a fare quello che pensiamo sia giusto fare».
I giovani della nostra diocesi che hanno partecipato alla GMG di Lisbona, lo scorso agosto, hanno già avuto la fortuna di incontrarti quando hai portato la tua testimonianza durante la “festa degli italiani”. Cosa hai detto allora ai giovani e cosa ti senti di ribadire oggi?
«Che ognuno è chiamato a fare la sua parte. Non a tutti è dato di diventare operatori umanitari o di trovarsi in mezzo al Mediterraneo, ma tutti possiamo fare qualcosa: anche raccontare, alzare la voce, è importante. Credo che i giovani oggi siano molti più aperti e avanti degli adulti nel sentire il grido del mondo. A tutti loro dico sempre: di fronte ad una persona che soffre chiedetevi sempre: “E se quella persona – in mare, a Gaza, in un campo profughi, per strada… – fosse mio fratello o mia sorella, fosse mia madre o un mio amico, cosa farei?” Mi comporterei come sto facendo o farei qualcosa di diverso. Tutto può cambiare se troviamo il coraggio di farci più spesso quella domanda».