I vescovi nicaraguensi si riuniranno oggi per valutare se e come dare seguito al Dialogo nazionale, rispetto al quale sono mediatori e testimoni. Da una parte c’è infatti la speranza che il tavolo possa essere riaperto, così come ha chiesto il Papa attraverso il nunzio apostolico. Dall’altra la prospettiva è resa difficile non solo per la crescente repressione governativa e gli attacchi mirati alle chiese, ma anche per le parola pronunciate giovedì scorso dal presidente Daniel Ortega in occasione della festa nazionale del 19 luglio, quando ha pesantemente attaccato i vescovi qualificandoli come “golpisti”.

La prima pagina del Settimanale dedicata alla crisi del Nicaragua

Domenica 22 luglio – riporta l’Agenzia Sir – in coincidenza con la preghiera per il Nicaragua promossa dal Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) in tutto il continente, l’arcivescovo ausiliare di Managua, mons. Silvio José Báez, ha celebrato l’eucaristia domenicale nella chiesa di San Michele Arcangelo. Dopo la messa, conversando con i giornalisti, ha fatto alcune valutazioni, riportate dalla stampa nicaraguense indipendente, sulle parole di Ortega: “Il presidente parla come politico, per i suoi seguaci e simpatizzanti – ha detto il vescovo –, e quindi le sue parole vanno interpretate in tale contesto. Noi siamo disposti, indipendentemente dalle sue parole, a continuare a collaborare per il dialogo, l’importante è che noi non ci sentiamo delegittimati”.

Mons. Báez ha invece usato parole forti per rispondere all’accusa del presidente che le chiese attaccate dalle forze governative venissero usate come depositi per armi: “Questa è un’affermazione assolutamente falsa, a partire dalle nostre chiese non è stato mosso alcun attacco e non sono state custodite armi. Si tratta di infami calunnie contro la chiesa”. Il presule ha sottolineato che le parole di Ortega e la repressione del Governo rende in ogni caso difficile la riapertura del dialogo, ma i problemi oggettivi “non fanno desistere” i vescovi dal fare ogni tentativo possibile.

Tuttavia, nel fine settimana, è proseguita anche l’attività di repressione e intimidazione dei paramilitari in diverse città, tra cui Granada, Rivas, Matagalpa, Jinotega, Masaya, Carazo, Chontales, León, Chinandega ed Estelí. In particolare, a Jinotega, come ha segnalato la diocesi, è stata profanata la cappella della Vergine del Carmine: l’ennesimo attacco contro la Chiesa.

AD APRILE L’INIZIO DELLE PROTESTE

Le proteste in Nicaragua sono iniziate il 18 aprile, nel giorno in cui era entrata in vigore una riforma del sistema pensionistico voluta dal governo guidato dal 2007 dall’ex guerrigliero Daniel Ortega. Anche se la riforma è stata prontamente ritirata (il 22 aprile scorso), proteste e manifestazioni vanno avanti in tutto il Paese, coinvolgendo in particolare gli studenti. Falliti per il momento i tentativi di mediazione della Conferenza episcopale del Nicaragua tra governo, studenti e società civile.

Il Nicaragua è stanco di Daniel Ortega, che nel 2016 ha nominato come vicepresidente della Repubblica la moglie, Rosario Murillo. Sia Amnesty International che Human Rights Watch hanno divulgato report attraverso i quali condannano senza appello l’azione del presidente e dei funzionari di regime, che oltre ad uccidere i civili in strada hanno malmenato anche rappresentanti delle gerarchie ecclesiastiche.

«Sono scioccato – ha dichiarato alla stampa Felix Maradiaga, un difensore dei diritti umani piuttosto noto in Nicaragua – i sostenitori del regime di Ortega sono in strada senza alcun riguardo per la vita umana».

Un altro testimone, Jonathan Duarte, ha riferito che «i paramilitari stanno facendo le ronde in strada ed uccidono indiscriminatamente, terrorizzando la popolazione». In risposta all’ondata di repressione violenta, lo scorso 13 luglio è stato indetto uno sciopero generale, con negozi chiusi ed attività sospese, che ha visto svuotarsi le vie principali della città di Managua. Nel contempo, mentre i cittadini nicaraguensi rimanevano chiusi in casa, Ortega e il suo entourage sfilavano per le vie del centro in una marcia tradizionale che ricordava quella di Masaya, contro il dittatore Anastasio Somoza nel 1979.