Il 24 marzo 1980 l’arcivescovo di San Salvador fu assassinato mentre celebrava la messa. Il mondo ne restò sconcertato, ma per i salvadoregni non fu una sorpresa: la sua, infatti, era una morte annunziata. Da tre anni ormai, Óscar Arnulfo Romero si era trasformato nella «voce di denuncia più lucida e attendibile» del Paese. Era l’unico capace di rendere la dignità rubata a migliaia di vittime, che mai sarebbero passate alla storia. Il suo omicidio aprì una porta sul baratro per il piccolo Paese centroamericano: più di ottantamila morti, tra uccisi e desaparecidos, in dodici anni di guerra civile. Per accostare e approfondire la figura di questo pastore, a pochi giorni dalla sua canonizzazione, in programma a Roma il prossimo 14 ottobre, abbiamo intervistato don Alberto Vitali, tra i massimi studiosi del vescovo salvadoregno, e autore del libro “Oscar A. Romero – pastore di agnelli e lupi”, edizioni Paoline. Don Alberto sarà a Villa Guardia martedì 9 ottobre.
La figura del beato Oscar Romero verrà presentata martedì 9 ottobre a Villa Guardia da don Alberto Vitali, responsabile per la Pastorale dei migranti dell’arcidiocesi di Milano e membro del Consiglio internazionale dei comitati «Óscar Romero» (Sicsal).
Don Alberto, se dovesse descrivere la figura di mons. Romero su quali tratti indugerebbe?
«Il suo essere pastore. Un pastore che, usando le parole di Papa Francesco, aveva addosso l’odore delle pecore. È questa la costante che ha unito le diverse fasi della sua vita anche quando era un conservatore vicino all’oligarchia al potere tanto da scontrarsi con tutto il clero, le comunità di base e, persino, il suo arcivescovo. Ma, nonostante questo tutti riconoscevano in lui la volontà di coltivare un rapporto umano con i poveri. È stata proprio questa tendenza a portarlo ad aprire gli occhi. Romero era timido, introverso, mai avrebbe voluto diventare martire. Raccontano alcuni testimoni che, pochi giorni prima di morire aveva confidato ad alcuni amici, piangendo, che non era pronto a morire. Nonostante questo non si è tirato indietro».
Qual è stato il momento chiave di questo cambiamento?
«Più che un solo momento è stato un percorso durato due anni e due mesi ovvero il periodo in cui è stato vescovo a Santiago de María, una delle diocesi iù povere del Paese. Qui Romero ha visto quello che stava succedendo, le violenze, le ingiustizie. Ma quelli che saranno i suoi nemici non se ne sono accorti e l’hanno rivoluto come arcivescovo a San Salvador. Tutti ricordavano il vescovo che era partito, non il pastore che era diventato».
Papa Francesco ha parlato di un “duplice martirio” sottolineando le maldicenze dette su di lui. È stato questo a bloccare il riconoscimento del suo martirio?
«Assolutamente sì. Purtroppo dentro la stessa Chiesa c’è stato chi (e parliamo anche di cardinali) ha cercato in tutti i modi di bloccarne il cammino verso gli altari».
Di cosa si aveva paura?
«Romero si è messo dalla parte dei poveri e, per questo, dava fastidio ai suoi vecchi amici che, ora, lo consideravano un traditore e una minaccia. Questo va letto sullo sfondo del grande cambiamento che c’è stato in America Latina all’indomani della seconda conferenza dell’episcopato latinoamericano di Medellin – di cui abbiamo appena celebrato 50 anni – con la scelta dell’opzione preferenziale per i poveri. E successivamente la nascita della teologia della Liberazione. Per secoli la Chiesa in America Latina era stata percepita come uno strumento per controllare le masse, di colpo i Vescovi sceglievano invece, apertamente, di mettersi dalla parte dei poveri e questo non poteva essere accettato dalle oligarchie».
Cosa può dire la testimonianza di questo prossimo santo alle nostre comunità?
«Ci dice soprattutto che il Vangelo va preso sul serio, che anche uno caratterialmente come era lui, timido e introverso, può arrivare a fare cose che non avrebbe mai immaginato per restare fedele a Cristo. Perché con il Vangelo non si scherza. Se oggi Romero fosse qui si metterebbe indiscutibilmente dalla parte dei migranti e dei poveri. Qui non si tratta di essere di destra o sinistra, moderali o estremisti, pacifisti o interventisti. Si tratta di farsi illuminare dal Vangelo e mettersi dalla parte dei poveri. È questa la grande lezione di Romero oggi».