Per la Fondazione Cariplo si avvicina la chiusura di un’era. Dopo il formale saluto di ringraziamento, lo scorso 8 aprile, presso il Teatro alla Scala di Milano, il 27 maggio si concluderà in forma ufficiale il cammino in Fondazione di Giuseppe Guzzetti. In questi giorni concitati il presidente ha concesso al Settimanale parte del suo tempo per tracciare un bilancio di questi ultimi 22 anni.
Presidente Guzzetti, partiamo dalla fine: il 27 maggio, giorno del suo 85° compleanno, sarà anche la sua ultima volta in Fondazione Cariplo. Come immagina la sua vita dopo quella data?
«È tempo di riposo dopo una vita molto intensa; è tempo di meditazione perché ne rimane poco per l’ultimo passaggio, quello che conta.
E poi desidero leggere i libri che in questi anni ho dovuto accantonare proprio per mancanza di tempo. Li ho messi da parte. Potrò dare una mano, dall’altra parte della Fondazione, a quelle attività che ho conosciuto e aiutato come Fondazione e in cui mi piacerebbe impegnarmi personalmente».
Lei è considerato il “padre” delle fondazioni di origine bancaria. Un sistema che ha origine all’inizio degli anni ’90. Qual è la motivazione che le fa nascere, la loro mission?
«Continuano a definirmi ‘padre delle fondazioni’, ho scoperto solo poco tempo fa che questo appellativo viene da una definizione data dalla Treccani. Rispetto l’istituzione che l’ha coniata, ma ho più volte spiegato che non mi ritengo il padre delle fondazioni, che nacquero da leggi a cui lavorarono in molti. Tra questi vi sono personaggi come Amato, Andreatta, Ciampi e… il presidente della Repubblica Mattarella. Personaggi ben più autorevoli di me. Quello che posso dire è invece che, da quando nacquero, abbiamo lavorato per dare un’operatività, un modus operandi ben definito, questo sì. Le fondazioni erano un foglio bianco; abbiamo dovuto scrivere da zero una storia che oggi ha dimostrato l’importanza di questi enti, senza i quali, di fronte ai tanti e drammatici problemi sociali di oggi, le migliaia di progetti di enti non profit che sosteniamo sarebbero rimasti non realizzati. E questo avrebbe fatto sì che le condizioni in cui vivono le persone più svantaggiate nelle nostre comunità sarebbero state anche peggiori, con un welfare pubblico che arranca e con risorse scarse dovute alla crisi. La missione era chiara fin dall’inizio: filantropica. Ma da lì a dire come realizzarla… non era facile. Le fondazioni e il Terzo Settore hanno dimostrato, in questi anni, di essere un pilastro fondamentale per le nostre comunità».
Lei è comasco, che idea si è fatto della capacità, o meno, del nostro territorio di fare squadra su progetti importanti, anche per cogliere le opportunità date dal piano di “Interventi Emblematici” della Fondazione Cariplo?
«Ovunque è difficile fare rete, non solo a Como. Si tratta di una dialettica necessaria su visioni e progetti differenti. Poi però bisogna giungere ad una sintesi. Il modo con cui Fondazione Cariplo eroga quelle risorse al territorio, ancora una volta, responsabilizza chi presenta i progetti e poi li deve realizzare. I bisogni sono tanti, ognuno ne vede una parte e ritiene che sia quella necessaria. Ecco perché ci si deve confrontare a fondo e a lungo, prima di scegliere su cosa concentrare i soldi che la Fondazione mette a disposizione. Si chiamano progetti emblematici, perché devono cambiare in modo significativo le attività di quel territorio e di quelle comunità che le vivono. È merito di chi ha operato nelle istituzioni pubbliche e nella società civile comasca averci proposto dei progetti, veramente “emblematici” che hanno risolto problemi con l’obiettivo di sviluppo economico e sociale della nostra provincia. Cito tre di questi interventi: Magistri Comacini, per il recupero del patrimonio storico, artistico, archeologico del Centro Alto Lago: un intervento che ci ha convinto a lanciare e realizzare i distretti culturali in Lombardia; ComoNExT a Lomazzo: una piattaforma per le nuove aziende innovative, che sono il futuro, per il sostegno alle aziende manifatturiere “tradizionali” che sono impegnate a rinnovare processi e prodotti per reggere la concorrenza; ed infine Villa Olmo: finalmente recuperata con il suo parco, per lo sviluppo culturale e turistico della nostra città di Como».
C’è un progetto a cui è particolarmente legato di quelli finanziati dalla Fondazione?
«Sono tantissimi, rischierei di fare un torto citando un solo progetto sociale. Posso dire che oggi tengo molto ai progetti legati al contrasto alla povertà, soprattutto contro la povertà che coinvolge i bambini… a Milano ad esempio abbiamo un grande progetto Qu.bì – quanto basta, per togliere dalla povertà i 21 mila bambini che vivono in gravi condizioni economiche e sociali. Spero che chi mi succederà alla guida della Fondazione estenda il progetto a tutte le province, perché purtroppo la povertà infantile dilaga ovunque. A livello nazionale il primo programma triennale contro la povertà educativa ha tolto da questa forma di povertà 500.000 bambini: una cifra impressionante. Ora intendiamo replicare per altri tre anni».
Per chiudere, le chiedo un sogno, una speranza, un auspicio, guardando all’Italia di oggi.
«Dare speranza ai bambini e ai giovani che hanno bisogno di guardare con fiducia al loro futuro. Hanno bisogno di certezze, di non vivere in un clima caratterizzato dall’odio che noi adulti continuiamo a generare. I bambini hanno bisogno di non patire la fame, i giovani di avere l’opportunità di entrare nel mondo del lavoro come punto di partenza per la loro vita adulta. E poi sogno la serenità per gli anziani, che hanno diritto a vivere gli ultimi anni della loro vita senza angosce. Voglio ricordare anche in questa intervista una frase di papa Francesco recentissima, di ritorno dal Marocco, “La paura è l’inizio della dittatura”. Devono stare molto attenti coloro che sulla paura vanno alla ricerca ossessiva del consenso elettorale e quindi del potere. Sono fortune politiche effimere, ma fanno pagare un prezzo altissimo al Paese. D’altra parte questa esperienza negativa l’abbiamo già vissuta e occorre non cancellare questa memoria, ma anzi averla presente ogni giorno e insegnarla ai giovani per non ricadere negli errori del passato».
Leggi l’intervista completa sul Settimanale di questa settimana.