Tutto fermo, fino a quando non si sa. Parlando di “fase 2” e di lenta ripresa delle attività lavorative, c’è una categoria per cui è ancora difficile intravedere una luce in fondo al tunnel. È quella degli operatori dello spettacolo – attori, registi, cantanti, musicisti, intrattenitori – e di tutto quell’universo di lavoratori che vi ruota attorno. Non parliamo solo di ricchi e famosi, per cui qualche mese di inattività potrebbe non rappresentare un grande problema, ma di decine di migliaia di “operai” (nel senso più nobile del termine) dello spettacolo per cui la situazione potrebbe diventare presto davvero difficile.
Abbiamo chiesto all’attore e regista comasco Davide Marrachelli di convidire con noi alcune riflessioni su questo difficile momento storico. E’ nata così una lettera che condividiamo con voi.
Mi sveglio di colpo, ho appena sognato di dire questa frase ai miei nipoti: io con la barba bianca e la schiena curva, come un classico vecchietto Disney, e loro, con mascherina, ad ascoltarmi un metro più in là.
Gli incubi del teatrante rispecchiano sempre i timori di ciò che può accadere in scena, dimenticare le battute, perdere la voce, la scenografia che viene giù; eppure mai avrei pensato che si sarebbe avverato il peggiore tra gli scenari: non avere più alcuna scena da far crollare, nessuna battuta da dimenticare, nessun pubblico da deludere. Colpa del droplet, dicono, goccioline nell’aria. Al netto della poesia, quella dello spettacolo dal vivo è un’industria, un’industria vera, che fa mangiare diverse famiglie; una fabbrica ferma da 60 giorni, e in crisi più di altre proprio per il fatto che la luce in fondo al tunnel ancora non si vede. Non ho i mezzi per affrontare la questione dal punto di vista economico, né da quello medico, ma in questo periodo strano per tutti, in cui abbiamo avuto il tempo per interrogarci sull’utilità delle nostre abitudini, sulle nostre relazioni, sul nostro modo di lavorare e di spostarci, ne ho approfittato per fare la cosa che mi viene meglio: pormi una domanda.
Il teatro serve? Serve ancora?
A giudicare dall’attenzione che la politica ha dato al settore, la risposta sarebbe no: dal ministro Franceschini è partita la proposta di un “Netflix della cultura”, che ha il sapore di un totale fraintendimento dell’essenza stessa di quest’arte: eppure la frase “spettacolo dal vivo” era già un bell’indizio. Non una parola, non una citazione nelle conferenze stampa ufficiali, in cui abbiamo scoperto che a governarci ci sono degli appassionati di calcio, ma non di arte. Tremila anni fa il rito del teatro era la base della civiltà. La politica e la religione passavano attraverso di esso, in un’unione non solo immaginaria tra corpo e anima, tra spirito collettivo e spirito individuale.
In tempi più recenti è stato il veicolo di ideali profondi per la nostra nazione (Viva Verdi, e giù volantini dalla piccionaia) Cosa è rimasto di quello spirito, oggi?
La sensazione da addetto ai lavori è questa: siamo delle formiche che urlano e sbraitano per avere un posto più dignitoso al mondo, ma mica da febbraio, da decenni.
Il teatro è importante! Venite a teatro, non potete farne a meno! Ce lo diciamo da soli, ce lo diciamo tra di noi per farci forza, siamo formiche che possiedono un tesoro, in costante allerta per non farci calpestare. Ma di quale tesoro stiamo parlando?
Il teatro non è solo il mio lavoro, è la mia vita. La mia necessità è quella di rappresentare sulla scena le ipotesi, di lanciare al pubblico i punti di domanda che nascono nella mia testa.
Una “civiltà teatrale” come la definisce Leo de Berardinis, è una società che non accetta i dogmi per quello che sono, ma che si mette in discussione. E’ una società abituata all’idea che le soluzioni non sono mai facili, che si prende cura del mistero come di un tesoro prezioso, e che non accetta slogan pubblicitari da 30 secondi, perché sa che il mondo è più complicato di come ce lo dipingono. Ecco qual è il tesoro, secondo me.
Un tesoro seppellito da due mesi, ma morto da anni.
“Il teatro non nasce dove la vita è piena, il teatro nasce dove ci sono delle ferite” scrive Copeau, e allora mi piace pensare che questo deserto che vediamo intorno possa diventare un humus, terreno fertile per far tornare la necessità di teatro ad un popolo stanco di incontri virtuali, di caselle di testo senza voce, di messaggi vocali senza risposta.
Perché sì, il teatro è incontro, scontro fisico tra esseri umani, un match che abbiamo spesso preferito evitare perché complicato, faticoso: dal vivo tutto è diverso, certe emozioni non si possono nascondere, e non parlo solo dell’attore sul palcoscenico, ma parlo del pubblico, parte integrante e lievito della rappresentazione.
“Bisogna azzerare tutto. […] L’arte attorica, perché venga salvata, è da azzerare totalmente [… ]Si tratta veramente di fare il deserto, e dal deserto può venire qualsiasi cosa. Se c’è chi sa innaffiare…” (Leo de Berardinis – intervista del 1997). Credo quindi che questa crisi possa essere, come spesso capita, un’occasione. L’occasione per il pubblico di provare un po’ di appetito, ma occasione ancora di più per noi lavoratori dello spettacolo, per renderci conto del patrimonio che abbiamo in mano, per capire che molto dipende anche dalla cura con cui lo lucidiamo, e dalla nostra capacità di non svenderlo al primo rigattiere. Noi possiamo essere il motore per la rinascita, a patto però che impariamo una nuova consapevolezza della sacralità del nostro compito, che sviluppiamo una nuova ferocia futurista nel legittimare il nostro ruolo sociale, per essere i primi davanti, quelli che trainano, e non l’animale ferito in fondo al gruppo, che chiede attenzioni. Il teatro è voce, odori, spalle che toccano spalle, e purtroppo sì, sono goccioline, goccioline dappertutto: saliva, lacrime, colpi di tosse, corpi che si fondono, e cervelli che si connettono. Senza corpo non c’è teatro, c’è un surrogato del teatro, e per un po’ ci faremo bastare quello. Non lo so quando riapriremo, ma quando questo accadrà, se saremo ancora vivi, lo faremo, garantito, con tutto il sudore possibile.
Davide Marranchelli
*la foto di copertina è di Alessandra Gagliotti