Un mito caduto? O forse solo un guerriero ferito, sorpreso e travolto da un virus che ha scelto di partire proprio da questa regione per svelarsi all’intero vecchio continente? La Lombardia è da tempo nell’occhio del ciclone, non soltanto perché alle prese con un’emergenza che non allenta la sua pressione, ma anche perché sotto attacco da chi considera inaccettabili i tanti, troppi, errori commessi nel tentativo di fronteggiare un nemico sconosciuto, e nel costruire un argine in sua difesa. Per comprendere meglio che cosa sia accaduto e misurare la temperatura dei piani alti del Pirellone abbiamo bussato alla porta di Alessandro Fermi, comasco, presidente del Consiglio regionale della Lombardia.

Alessandro Fermi

Presidente fermi, in questo anno ci sono state tante difficoltà, impegni, promesse non mantenute. Quali sono stati, a suo avviso, gli errori e i successi di Regione Lombardia nel corso di quest’anno?

«Per rispondere a questa domanda credo occorra partire da un presupposto, che rappresenta ormai un dato storico. La Lombardia è stata, a livello europeo, l’apripista di questo virus. Le notizie che arrivavano dalla Cina erano poche e assolutamente insufficienti per permetterci di gestire una situazione inattesa e sconosciuta. Nonostante la scomoda posizione della cavia abbiamo però saputo reagire con abnegazione e coraggio. Ecco, se devo cercare un’immagine positiva penso al grande lavoro svolto dal mondo della sanità lombarda, all’impegno di tantissimi volontari, all’enorme disponibilità dei cittadini nell’accettare, con maturità straordinaria, le tante misure privative della libertà. Provvedimenti mai assunti dal dopoguerra ad oggi. Ho visto, insomma, la forza e l’energia dello spirito lombardo. Sono stati commessi degli errori? Certamente, ma era inevitabile fosse così, in assoluta buona fede e sempre nel tentativo di imboccare la strada giusta. Abbiamo dovuto sperimentare. E il clima non era certo dei più favorevoli: ricordo una delle prime dirette televisive, quando il presidente Fontana, che si presentò indossando la mascherina, venne sbeffeggiato, quasi ledesse l’immagine della regione Lombardia. Ad ogni modo credo che il grande cuore lombardo abbia davvero fatto la differenza. Se virus avesse scelto altri territori, in Italia e in Europa, non credo avrebbero retto meglio all’impatto».

 Attilio Fontana in una delle prime comparse con la mascherina, lo scorso anno

Eppure i problemi ci sono stati, e non pochi. Ci siamo da sempre cullati dentro il mito della Lombardia motore d’Italia, con un sistema sanitario d’eccellenza. Possiamo dire che la confusione nella gestione dell’emergenza, che ha raggiunto il suo culmine nei ritardi sulla campagna vaccinale, ha definitivamente cancellato questo mito?

«Il modello lombardo di gestione e organizzazione sociosanitaria è sicuramente tra i primi in Italia e in Europa. La compartecipazione tra pubblico e privato è stata una scelta vincente, che ha portato ad un cambio totale di paradigma, soprattutto a beneficio delle fasce più deboli della collettività. Prima del 2000 alcuni ospedali erano appannaggio solo di chi poteva permettersi un cospicuo conto in banca. Da vent’anni a questa parte, invece, anche chi dispone della pensione minima ha diritto ad essere curato nell’ospedale che meglio può assisterlo. Questo modello di compartecipazione pubblico-privato ha funzionato, anche durante la pandemia. E continuerà a funzionare. A certificarne l’eccellenza anche il fatto che non sono pochi, dall’Italia e dall’estero, che scelgono proprio i nostri ospedali lombardi per farsi curare».

Allora che cosa non funziona, o va migliorato?

«Credo vada perfezionato tutto ciò che è extraospedaliero. Prendere un anno pandemico, per sua natura eccezionale, come modello di riferimento per promuovere una riforma sanitaria penso sia culturalmente sbagliato. Va però detto che già prima di questa pandemia si erano avute segnalazioni di criticità rispetto a questo ambito. Criticità che la pandemia ha evidenziato in maniera ancora più dirompente. Dove intervenire allora? Va migliorato il sistema di presa in carico, quel filtro, al momento ancora troppo debole, tra il singolo cittadino e ospedale.  Oggi una persona con un problema che potrebbe tranquillamente essere affrontato e risolto al di fuori dell’ospedale, se non sa a chi rivolgersi sceglie il pronto soccorso. Ecco, noi dobbiamo invece creare delle alternative. Questo sarà l’obiettivo principale che intendiamo porci nella rivisitazione della Legge 23: puntare su una medicina di maggiore prossimità».

I ritardi della campagna vaccinale e la confusione dei giorni scorsi, che ha avuto anche Como come protagonista, non possono essere imputabili solo alla carenza di vaccini. Che cosa è accaduto davvero in Lombardia?

«L’immagine che è stata data in questi giorni della Regione Lombardia, rispetto alla campagna vaccinale, è stata oggettivamente eccessiva. Un conto è evidenziare alcuni disservizi, che effettivamente si sono verificati: penso alle vaccinazioni di alcuni ultraottantenni lontano dalla propria residenza e all’imbarazzo dovuto alla mancata convocazione di altri, frutto di un sistema di gestione, da parte Aria, che ha mostrato difficoltà e lacune. Altra cosa, però, è dire che la Lombardia è al palo sul piano vaccinale. Nel rapporto tra numero di vaccini disponibili e dosi somministrate non siamo la prima Regione, è vero, ma nemmeno l’ultima, e ci collochiamo nella media tra le diverse regioni italiane. Per quanto ci riguarda entro l’11 aprile tutti gli over 80 saranno vaccinati. Dopo di che inizierà la campagna massiva, con l’obiettivo di arrivare, qualcuno dice giugno, io dico entro luglio, a vaccinare almeno 6,5 milioni di cittadini lombardi».

Il caos di AstraZeneca non ha aiutato la campagna vaccinale…

«Disporre di più vaccini, ad un solo anno dall’individuazione dei primi casi di Covid-19, è un risultato straordinario che dobbiamo riconoscere alla Scienza e ai tanti ricercatori che si sono prodigati in questi mesi. Rispetto ad AstraZeneca personalmente non ho condiviso lo “stop and go” che ha alimentato preoccupazioni e paure ingiustificate, rallentando la corsa di una campagna che già stentava a decollare, sollevando dubbi sulla bontà di un vaccino già sperimentato e validato dalle autorità competenti. AstraZeneca è stato somministrato in Gran Bretagna a milioni di persone e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Vero è che non esiste medicina che non porti con sé una componente di rischio. Pensiamo alla comunissima pillola anticoncezionale: scorrendo il “bugiardino” si trova, tra le possibili conseguenze dovute alla sua assunzione, anche il rischio di trombosi.  Ebbene: secondo AIFA AstraZeneca espone al rischio di coaguli di sangue in misura minore rispetto a chi assume la pillola. Il rischio, inevitabile, dovuto all’assunzione di qualsiasi farmaco credo vada bilanciato con il valore sociale che questa azione comporta. Vaccinarsi è un gesto d’altruismo necessario per permettere a tutti noi di uscire, il prima possibile, da questa terribile pandemia».

Le chiedo un’ultimissima parola di conforto ai tanti ultraottantenni che stanno ancora attendendo la somministrazione del vaccino.

«Da un lato vorrei assicurarli che entro l’11 aprile tutti coloro che si sono prenotati verranno vaccinati. Mi scuso con quanti hanno subito dei disservizi e ringrazio per la pazienza chi sta aspettando. Una virtù, la pazienza, che soprattutto chi è in là negli anni sa esercitare molto bene».

Trovate l’intervista completa sull’edizione di Pasqua del Settimanale