Beppe Menafra è il referente di Porta Aperta e da pochi mesi anche vice-direttore della Caritas diocesana per la provincia di Como. A lui abbiamo chiesto una riflessione a partire dalla stagione invernale appena conclusa.
«Direi che è stata senza dubbio una stagione positiva e per questo permettetemi di dire prima di tutto “grazie” a operatori e volontari che hanno reso possibile l’accoglienza sia nella struttura di via Borgovico sia nelle sette parrocchie coinvolte nel “Progetto Betlemme”. Il dato forse più significativo di quest’anno è stata la contrazione dei numeri: abbiamo accolto 108 persone a fronte dei 160 dell’inverno 2020-2021».

Come leggere questo calo numerico?
«Credo vi sia un duplice effetto provocato dalla pandemia. Il primo è numerico: nel 2020 e 2021 abbiamo avuto un calo degli arrivi in Italia e questo ha avuto sicuramente un impatto sulla mobilità dei cittadini stranieri nel nostro Paese (su questo ha influito anche la sospensione delle dimissioni dai Centri per i richiedenti asilo). In secondo luogo la pandemia ha obbligato le amministrazioni locali a farsi carico delle persone che erano presenti sui territori costringendole a trovare forme di riparo specialmente nei mesi del lookdown. Oggi, a distanza di quasi due anni, posso dire che questa maggior stanzialità ha avuto effetti positivi sulle persone senza dimora perché ha permesso loro di tessere relazioni e ha favorito forme di presa in carico da parte di istituzioni e del mondo del terzo settore. Questo lo vediamo bene a Porta Aperta: i numeri di chi bussa alla nostra porta non sono mai stati così bassi negli ultimi dieci anni».

Guardando al progetto “Emergenza Freddo”, la struttura di via Borgovico si è confermata ottimale per questo tipo di servizio?
«Decisamente. La possibilità di avere piccole stanze invece di un’unica grande camerata, come nel caso dei precedenti spazi, favorisce sicuramente un clima più disteso riducendo le difficoltà di convivenza. Anche per i volontari il fatto di avere un unico dormitorio (rispetto ai due dello scorso anno) ha reso la gestione più semplice».

Poi c’è la conferma del Progetto Betlemme con ben sette parrocchie coinvolte. Possiamo dire che per la Caritas è una scommessa vinta?
«È una scommessa vinta per la Chiesa di Como. Il Vescovo si è speso in prima persona nell’invitare le comunità a dare la propria disponibilità e la risposta è stata importante: dagli 8 posti dell’anno scorso siamo saliti a 17. A colpirmi è anche il dato dei volontari coinvolti: ben 200! Davvero un’esperienza positiva per gli ospiti, per le parrocchie e, ovviamente, per noi. Una conferma di come l’accoglienza diffusa sia la strada su cui puntare».

Le ricadute positive sono anche sul versante economico…
«Il Progetto Betlemme poggia interamente sulle risorse delle parrocchie ad eccezione di un contributo che solitamente diamo per l’acquisto dell’abbonamento ai mezzi pubblici necessario per gli spostamenti. Se pensiamo alle 17 persone ospitate e facciamo una comparazione con i costi che avremmo avuto all’interno di un dormitorio non c’è davvero paragone».

Il Progetto Betlemme è arrivato al secondo anno, dopo una prima sperimentazione con la partenza di Casa Bartimeo a S. Agata. Avete notato delle ricadute positive sugli ospiti?
«Non nell’immediato, ma sono esperienze i cui effetti emergono nel tempo. Se penso agli 8 ospiti accolti nel 2020-2021, ben sei non hanno avuto bisogno di un posto per dormire durante questo inverno. Perché, in un modo o nell’altro, si erano sistemati. Mi è capitato lo scorso autunno di rivedere uno degli ospiti che erano stati accolti in una parrocchia tornare a fare volontariato in quella comunità. Gli ho chiesto se avesse avuto bisogno ancora di un posto per l’inverno e mi ha detto di no, lui era lì in parrocchia solo per aiutare. “Non sono più quello dell’anno scorso”, mi ha detto. E in questa frase c’era tutto l’orgoglio di una dignità ritrovata”.

Pensi che il Progetto Betlemme possa crescere ancora?
«Penso e spero di sì. Tutte le parrocchie coinvolte hanno manifestato la volontà di proseguire e spero che altre seguano l’esempio perché nessuno in questi anni si è mai pentito di aver fatto questo primo passo. Dal punto di vista pastorale resta poi un’esperienza molto forte, capace anche di aggregare persone lontane dalla vita parrocchiale, anche se a volte il rischio è che resti un’esperienza di nicchia, molto sentita da chi la vive e quasi sconosciuta a chi non vi partecipa. Da qui la sfida di riuscire a narrare il bello di questa esperienza».

In questo InformaCaritas presentiamo anche il bilancio dell’accoglienza nel dormitorio comunale. Guardando al tema dei senza dimora quali sono le piste su cui come Caritas intendete lavorare?
«Dobbiamo ripartire dalle case. Non c’è altra strada. In questi ultimi anni insieme alla Rete degli enti per la grave marginalità abbiamo provato a spingere sul tema dell’housing first e i risultati sono davvero incoraggianti. È quella la strada da percorrere e su cui spingere. Altrimenti ci troveremo sempre al punto di partenza. Dobbiamo trovare abitazioni sia pubbliche sia private da mettere a disposizione dei senza dimora e accompagnarli in questo percorso di ritorno all’autonomia. A Porta Aperta l’abbiamo toccato con mano: c’erano delle persone che venivano quasi tutti i giorni a chiedere aiuto per qualsiasi cosa. Siamo riusciti a trovargli una casa, magari anche in condivisione, e da allora non hanno più chiesto aiuto».