Sappiamo tutto dell’arresto di Matteo Messina Denaro, che si sentiva sicuro, che usciva regolarmente di casa, che amava i vestiti costosi, che era andato a vedere giocare il Palermo, che ogni tanto andava a Roma, che era malato, che andava al bar e dal barbiere. Sappiamo che “salutava sempre” (nemmeno si trattasse di una delle più classiche e consolidate battute sulla insospettabile presenza di un boss mafioso celata dietro).

Sappiamo l’arredamento degli interni dei vari covi, quale macchina guidava, chi lo accompagnava dal medico. Sappiamo persino i nomi (e i volti) di famigliari di ogni grado, compresi quelli che non hanno mai avuto alcun legame con lui. Tanto sappiamo di questo arresto eccellente, tranne forse, quello che davvero meriteremmo di conoscere: chi ha protetto la trentennale latitanza dell’uomo più ricercato d’Italia, come sia stata possibile, dalla latitanza, la creazione e la gestione di uno sterminato impero economico ramificato e consolidato ben oltre i confini della Sicilia, come sia stato possibile che Matteo Messina Denaro, per tutto questo tempo, fosse visto non come la romantica figura di un boss del passato in fuga dalla giustizia ma piuttosto come un solido centro di potere e un riferimento per affari e politica.

Non è solo una questione di lasciare perdere un gossip che sta, oggettivamente, raggiungendo i limiti del grottesco: i riferimenti a “il Padrino” di Coppola e ad altri mafiosi dell’immaginario cinematografico, gli indizi di incontri galanti o i vestiti griffati. E non è nemmeno il caso di stabilire se il barista, il fornaio o il postino sapessero della vera identità del boss in incognito: non sarebbe cosa particolarmente strana immaginare che nel territorio che ha visto nascere e affermarsi uno dei massimi capi di Cosa Nostra questi goda ancora (per paura, rispetto o omertà) di una vasta rete di appoggio e di aiuto.

Il referente di Libera Como, Stefano Tosetti

Sia chiaro, l’arresto dell’ultimo padrino ancora a piede libero della stagione della strategia stragista siciliana è un’ottima notizia: la doverosa conclusione di una delle pagine più buie della nostra recente storia e l’unica che un Paese che si è realmente prefissato di contrastare le mafie avrebbe potuto accettare. Ma l’arresto di una singola persona, per quanto eccellente, non può nascondere del tutto il senso di vuoto di questi trent’anni di ricerche infruttuose, depistaggi, piste finite nel nulla, mentre le indagini davano prova di un potere solido, temuto e ricercato, quasi incurante degli sforzi di magistrati e forze dell’ordine.

Sono domande sicuramente scomode, che chiamano in causa interi territori, le loro classi politiche, il loro tessuto sociale ed economico, che non possono essere “distratte” dal gossip o dal sensazionalismo della cronaca. Sono domande importanti, che riguardano la credibilità dello Stato nella lotta alle mafie, la tenuta delle sue istituzioni e del suo tessuto sociale, la capacità di resistere al compromesso, alla corruzione, alla connivenza, la forza di quegli anticorpi di democrazia, legalità e giustizia sociale che professiamo di avere ad ogni celebrazione o ricorrenza.

L’arresto di Matteo Messina Denaro è una tappa importante che può e deve fare luce sul passato per ricostruire dolorose pagine della storia italiana, ma non può certo essere considerata una “fine”. Piuttosto un giro di boa, un punto di partenza per il futuro della lotta alla criminalità organizzata e a come essa, nelle sue tante forme, si è adattata per sopravvivere alla risposta dello Stato.

Rispondere alle domande che l’arresto di Messina Denaro pone è una delle chiavi per capire l’eccezionale pervasività che le mafie, nelle loro diverse forme, riescono ad avere nel tessuto sociale, imprenditoriale e politico italiano, da nord a sud, comprendere le ombre che ne favoriscono la diffusione e le dinamiche che ne consolidano la presenza.

Dobbiamo affrontarle, a testa alta, accettando le contraddizioni che queste genereranno, affrontando gli scandali che verranno alla luce. Ne và del nostro modo di essere cittadini democratici e liberi, degli sforzi che facciamo come collettività, e del futuro delle nostre coscienze.

Perchè la vera domanda, in ultima analisi, è se in questi trent’anni dalle stragi del 1992 e 1993, dalla lezione umana e professionale di Falcone, Borsellino e dei tanti altri di cui celebriamo l’impegno e il sacrificio, abbiamo poi davvero imparato qualcosa.

Stefano Tosetti –  Referente Libera Como