Quando racconta della sua diocesi di Nacala il vescovo Alberto Vera Arejula è un vero fiume in piena: racconta del Mozambico, delle fatiche che vive la sua gente, ma senza cedere il passo al pessimismo o alla disperazione. Invita anzi a meravigliarsi per i passi che la Chiesa sta facendo in quella terra.
Abbiamo incontrato il vescovo Alberto, missionario mercedario spagnolo, originario di Logroño, nel palazzo episcopale di Como pochi minuti prima del suo incontro con il cardinal Oscar Cantoni.
Una visita fortemente voluta da mons. Vera Arejula che, approfittando di un suo viaggio in Italia – organizzato per partecipare a Roma all’Assemblea delle Caritas africane e di Caritas internationalis – ha voluto far visita alle diocesi di Como, Pordenone e Verona da cui provengono i missionari fidei donum attualmente presenti nella Diocesi di Nacala. Ad accompagnare il vescovo don Lorenzo Barro, missionario fidei donum di Pordenone, suo vicario generale, e parroco a Chipene la comunità dove nel settembre scorso è stata uccisa suor Maria De Coppi.
«Sono venuto per conoscere il cardinal Cantoni e, successivamente, per incontrare i familiari e la comunità di don Filippo», racconta il vescovo.
Un incontro che fa preludio al primo viaggio in Mozambico del vescovo di Como che sarà nella diocesi di Nacala dal 13 al 20 giugno prossimi accompagnato da don Alberto Pini e don Roberto Secchi. Approfittando di questa visita e in vista di questo viaggio ecco allora che abbiamo posto a mons. Alberto alcune domande per meglio conoscere la realtà di Nacala. Ma prima di iniziare il vescovo Vera Arejula ha voluto sgombrare il campo da un equivoco di fondo: «Le notizie che arrivano dal Mozambico – ha spiegato – parlano solo di povertà, guerra, sfollati. Tutte realtà con cui ci dobbiamo confrontare, ma questa è una visione negativa che non rende giustizia alla complessità della situazione. Certo viviamo in una realtà dura, dove siamo minoranza sia perché la maggioranza della popolazione è musulmana, ma ancor di più perché viviamo in una regione abitata dai Macua, popolazione ancora molto legata alle religioni tradizionali, dove ci sono aspetti della vita, come la poligamia, che mal si conciliano con il credo cristiano».
Eccellenza, partiamo dal tema della sicurezza. Com’è oggi la situazione nella vostra diocesi?
«La situazione nella diocesi di Nacala è oggi tranquilla. Complice anche il periodo del ramadan appena vissuto – tempo durante il quale normalmente calano gli attacchi – si vede oggi un po’ di pace. È importante poi ribadire come la presenza di milizie e terroristi, attivi in Mozambico almeno dal 2017, sia concentrata più a nord nella regione di Capo Delgado e non nella nostra Provincia di Nampula (di cui la diocesi di Nacala fa parte, ndr). Diciamo che gli attacchi del settembre scorso, costati la vita a suor Maria, sono stati una brutta novità, ma non si è trattato di violenze sistematiche, ma piuttosto di un adattamento dei gruppi alla pressione militare esercitata più a nord con il conseguente spostamento delle operazioni a sud del fiume Lurio».
La popolazione come vive questa fase di “quiete dopo la tempesta”?
«Sono passati sei mesi dall’assalto alla missione di Chipene, ma la popolazione ha ancora tanta paura. In molti hanno perso quel poco di fiducia che avevano nelle autorità. Chi è scappato da Chipene difficilmente tornerà indietro, almeno nei prossimi mesi, e questo spiega la necessità, anche come Chiesa, di rispondere alla sfida dell’accoglienza degli sfollati: nella sola provincia di Capo Delgado su una popolazione complessiva di 1,7 milioni di abitanti ci sono oggi 1 milione di sfollati».
Quali sono le ragioni che stanno alla base di questi movimenti terroristici?
«Le cause sono complesse, ma credo che alla base ci sia proprio questo comune sentimento di sfiducia e insoddisfazione. Il Mozambico è un Paese giovanissimo – oltre il 50% della popolazione ha meno di 16 anni – eppure per i giovani non ci sono opportunità di studio o di lavoro. Il governo, su cui pesa ancora l’impronta socialista, cerca di controllare tutto (dall’istruzione, alla sanità, passando per le infrastrutture), ma con grandi difficoltà. Vi faccio un esempio: abbiamo ragazzi che frequentano 5 o 6 anni di scuola e al termine non sanno ancora né leggere né scrivere. Ecco, questa è la base su cui a Capo Delgado hanno attecchito le idee portate in Mozambico da giovani che hanno avuto l’opportunità di andare a studiare in Arabia Saudita, Algeria e in altri Paesi con visioni dell’Islam radicali, lontani dal tradizionale sentire delle popolazioni mozambicane. Altri giovani per ragioni economiche sono stati reclutati dai miliziani di Al-Shabaab per combattere in Somalia. Una volta tornati questi hanno diffuso queste idee nelle comunità locali trovando, come accennavo prima, un terreno fertile».
In questo scenario si inserisce la morte di suor Maria De Coppi. Cosa ha rappresentato per voi?
«Per il popolo è stato un colpo fortissimo e anche per l’intera Diocesi. Suor Maria aveva trascorso 49 anni in Mozambico, era stata superiora delle suore comboniane nel Paese. Aveva fatto parte dell’èquipe che aveva aperto la missione a Chipene, parlava correttamente il Macua (cosa non così facile) ed era per tutti un punto di riferimento: era come una madre, aiutava davvero tutti con amore e umiltà. Quando il 1° ottobre 2022 siamo tornati a Chipene, tre settimana dopo la tragedia, abbiamo trovato una moltitudine di persone ad aspettarci. Segno di quanto suor Maria abbia saputo toccare i cuori della gente».
A Chipene ha vissuto i primi mesi in Mozambico il nostro don Filippo, ora destinato a Mirrote.
«Ho visto don Filippo pochi giorni prima della mia partenza per l’Italia. L’ho visto contento. In questi mesi si sta ambientando, ma ci vuole tempo, non c’è fretta. Ha iniziato ad occuparsi della parrocchia di Mirrote (che visiterà anche con il cardinale Cantoni, ndr), ma attualmente fa ancora la spola con la missione dei comboniani a Namapa dove vive. L’idea è che possa esserci presto un altro sacerdote con cui condividere l’impegno pastorale nelle tante comunità che compongono la parrocchia di Mirrote così da potersi anche trasferire nei locali in via di ristrutturazione».