Nel corso del 2024 sono morte in Italia 434 persone senza dimora, un numero che supera il dato già troppo elevato dell’anno precedente. I dati del 2024, raccolti nell’annuale report di fio.PSD [leggilo qui] evidenziano che si muore tutto l’anno, non solo durante la cosiddetta “emergenza freddo” e che i decessi riguardano persone che vivono in condizioni di particolare marginalità e isolamento, spesso lontane dal contatto con il sistema dei servizi presente nei territori. Persone che non rimangono confinate solo all’interno delle grandi aree metropolitane, ma che abitano anche le province più piccole.
Per approfondire il tema povertà e salute abbiamo incontrato Giovanni Galimberti, medico di base in pensione e presidente di Medici con l’Africa Como, che da 25 anni svolge il servizio di medico volontario all’ambulatorio “Casa Santa Luisa” gestito a Como dall’associazione Asci don Guanella (realtà che aderisce alla rete Vicini di Strada). Uno sportello rivolto alle tante persone – circa 380 quelle che si sono rivolte nel corso del 2024 – che nel comasco non hanno la possibilità di accedere al medico di base o al servizio sanitario nazionale.
Dottore quanto la situazione di marginalità sociale impatta sulla salute delle persone?
«Quello che posso dire dopo 40 anni di servizio come medico di base e 25 da volontari dell’ambulatorio Santa Luisa è che, in generale, la possibilità di curarsi è influenzata dalle capacità economiche delle persone. Questo vale per tutti non solo per i senza dimora: chi non ha i mezzi per accedere a visite o esami privati in alcuni casi finisce per trascurare alcune patologie non intervenendo o facendolo tardi. Questo, come dicevo, è ancora più evidente quando ci si trova di fronte a persone che non possono accedere alle cure».
Posso chiederle di esplicitare meglio questo aspetto che mi sembra centrale…
«Al nostro ambulatorio si rivolgono due categorie di persone: il primo gruppo è composto da italiani che sono residenti in altre Regioni italiane e che dunque sono assegnati ad un medico di base che risiede altrove. Potrebbero chiedere di essere assegnati ad un medico del territorio ma il cambio di residenza non è sempre facile per chi vive senza un domicilio stabile. Il secondo gruppo, più numeroso, è composto da stranieri non in regola con il permesso di soggiorno o in attesa di riceverlo. Per entrambe le categorie l’unico accesso al servizio sanitario è attraverso le cure di emergenza del Pronto Soccorso. Questo può portare a due problemi: il primo è che si rivolgono al Pronto Soccorso persone che potrebbero essere trattate altrove (basterebbe un medico di base); il secondo è che quando si arriva al Pronto Soccorso le situazioni possono essersi aggravate. Penso ad un uomo che si è rivolto al nostro ambulatorio alcuni giorni fa. Il medico che l’ha visitato si è accorto che c’era qualcosa che non andava e l’ha inviato in PS per accertamenti. Risultato: polmonite bilaterale. Se quest’uomo non fosse venuto da noi forse sarebbe arrivato in ospedale quando era tardi».
Anche in caso di ricovero resta il problema della presa in carico post dimissioni?
«Questo vale soprattutto per chi deve seguire una terapia precisa. In questo non posso dimenticare la cura e l’attenzione che prestava a queste situazioni don Roberto Malgesini. Era spesso lui a farsi carico dei casi più delicati e ad assicurarsi che seguissero le terapie. Deve dire sinceramente che la sua mancanza si sente davvero molto. Oggi non c’è più nessuno che fa il lavoro “di strada” che faceva lui».
Nel caso degli stranieri la normativa prevede che gli ospedali possano attribuire alle persone straniere un codice STP (Straniero Temporaneamente Presente) che funziona come una sorta di tessera sanitaria provvisoria per il periodo di 60 giorni così da permettere la cura delle persone dopo la dimissione.
«Sì, ma questa pratica purtroppo, pur essendo prevista dalla legge, in molti casi non è garantita. Queste persone finiscono spesso per essere invisibili»
Da qui l’importanza di luoghi come l’ambulatorio Casa Santa Luisa di Asci don Guanella?
«L’ambulatorio nasce per rispondere a questo vuoto e provare a garantire il diritto alla salute per tutti. Il servizio può contare, oltre che su un operatore formato che si occupa di filtrare gli accessi, su un team di medici volontari, tra cui alcuni specialisti attivati nel caso ci siano casi particolari. Da una quindicina di anni l’ambulatorio è inoltre in possesso del ricettario regionale così da poter prescrivere farmaci e esami attraverso il Servizio Sanitario Regionale. Questo perché le stesse istituzioni hanno riconosciuto come il nostro lavoro non solo offra benefici alle persone, ma riduce anche i costi per il servizio pubblico perché la prevenzione permette di ridurre gli accessi al Pronto Soccorso e i ricoveri».
Lei ha vissuto per alcuni anni come medico in Congo. Da venticinque anni opera a servizio dei senza dimora. Che riflessioni ha maturato da queste esperienze ai margini?
«Durante la mia esperienza con Medici con l’Africa pensavo che il problema delle disuguaglianze nell’accesso alle cure fosse solo un problema di sud del mondo. Oggi devo purtroppo ammettere che anche nella nostra ricca Lombardia siano stati fatti dei passi indietro nel diritto alla salute. Da una parte la medicina sta facendo passi in avanti incredibili, ma dall’altro – dati come quelli del rapporto – ci dimostrano come per tanti l’accesso alle cure sia un diritto negato».