Nel cuore d’Africa c’è una piccola Como o, forse, dovremmo dire c’era una piccola “Como africana”. Era proprio con questo appellativo o con il termine “Nuova Como” che sulla rivista dei missionari comboniani dell’epoca – La Nigrizia – ci si riferiva alla missione di Yoynyang fondata nel 1925 lungo il corso del Nilo Bianco dai compagni di San Daniele Comboni, in quello che oggi è il nord del Sud Sudan.
Una terra allora remota, abitata dal popolo Nuer, che era possibile raggiungere solo a bordo di piroscafi che percorrevano, controcorrente, il corso del fiume.
A cento anni di distanza, tra guerre civili, espulsioni dei missionari, epidemie e inondazioni, la Chiesa è ancora presente, viva grazie soprattutto alla fede tenace dei catechiesti, tanto da aver festeggiato domenica 11 maggio questo importante anniversario.
Ne abbiamo parlato con mons. Christian Carlassare, vescovo di Bentiu, diocesi sotto la cui giurisdizione ricade oggi il territorio della missione di Yoyniang. Il religioso comboniano ci ha raccontato il significato profondo di questo anniversario e il legame di questa missione con la diocesi di Como.
Vescovo Carlassare, cosa ha significato per lei e la sua Chiesa questo anniversario?
«Prima di tutto significa gratitudine al Signore, perché essere ancora qui dopo cent’anni è un dono. I missionari comboniani arrivarono a Yoynyang nel 1925, e quel nome – in lingua Nuer – è stato tradotto come “Nuova Como”, a testimonianza di un legame profondo con l’Italia e con la vostra diocesi. Ma solo quattordici anni dopo, nel 1939, dovettero abbandonare la missione. La colonia inglese, allora al potere, non gradiva la presenza di missionari italiani in un’area strategica e vicina al confine con l’Etiopia. Subentrarono allora i missionari inglesi, che continuarono l’opera fino al 1964. Poi anche loro vennero espulsi, questa volta dal governo di Khartoum e, insieme a loro, circa 200 missionari comboniani allora presenti nel Paese. Tutte le missioni vennero abbandonate. Da quel momento, la presenza ecclesiale fu fragile, ma non scomparve. Furono i catechisti laici, a mantenere viva la fede. E grazie a loro, la Chiesa ha resistito. Negli anni ’70 fu ordinato il primo prete Nuer, padre Zaccaria Bol Chatiem, che riaprì la missione come parrocchia, portandola avanti fino allo scoppio della seconda guerra di indipendenza, nel 1983. I comboniani tornarono solo nel 1996, ma non a Yoynyang, bensì in una zona rurale più a sud. In quegli anni si era formato un piccolo gruppo di missionari che rientravano nei territori liberati dalla guerriglia. L’area di Bentiu, sotto il controllo governativo, era inaccessibile, ma i villaggi attorno venivano raggiunti. Un lavoro difficile, in una zona vastissima, estesa quasi quanto la Lombardia. Eppure si è continuato, sempre a fianco dei laici, che sono stati la vera spina dorsale della Chiesa. Celebrando questi 100 anni, guardiamo indietro a una storia sofferta ma viva».
Ci racconta qualcosa del legame tra questa missione e Como?
«Ho letto degli articoli storici della rivista Nigrizia che parlano della fondazione della missione e menzionano proprio il nome “Nuova Como” dato a Yoynyang. All’epoca, ogni nuova missione riceveva il patrocinio di una diocesi italiana. Penso che questo gemellaggio sia nato grazie alla figura del vicario apostolico di Karthoum, mons. Paolo Tranquillo Silvestri (nato a Livigno l’ 11 giugno 1876 e morto a Rebbio il 22 gennaio 1949, ndr), consacrato vescovo proprio nella cattedrale di Como nel dicembre 1924. Questa missione, fortemente voluta da lui, nacque anche grazie al sostegno economico e spirituale della diocesi comasca. Bisogna pensare che allora avviare una missione comportava costi enormi: lunghi viaggi in battello, la costruzione delle case, della scuola, del catecumenato. La popolazione locale non avrebbe mai potuto sostenerne le spese».