Padre Aurelio Gazzera, missionario carmelitano in Repubblica Centrafricana, sarà a Como il prossimo 22 maggio per condividere la sua esperienza in terra di missione e raccontarci la difficile fase sociale e politica che sta attraversando il Paese africano.

L’incontro – al Centro pastorale card. Ferrari con inizio alle 21 – è organizzato dalla Caritas diocesana e dal Centro missionario in collaborazione con l’associazione Amici per il Centrafrica.

Di seguito vi proponiamo alcuni passaggi di un’intervista rilasciata dal missionario all’Agenzia Sir.

“La pace è ancora molto lontana” per il Centrafrica. È padre Aurelio Gazzera, missionario carmelitano di origine cuneese, in missione nel Paese africano dal 1992, a commentare l’assalto alla chiesa di Nostra Signora di Fatima a Bangui e gli scontri che ne sono seguiti il 1º maggio scorso lasciando 22 vittime e oltre 100 feriti, secondo le ultime informazioni diffuse dall’Onu presente nella Repubblica Centrafricana con un contingente di Caschi blu. Il territorio è per quasi l’80% occupato da milizie di ribelli mentre, ha detto il Comitato internazionale della Croce rossa il 2 maggio, la situazione umanitaria nel Paese peggiora e il 50% della popolazione ha bisogno di aiuti. Padre Aurelio vive e lavora a Bozoum, oltre 300 km a nord di Bangui, per arginare la povertà, perché questa è “la radice e il frutto della guerra”.

Sembrava che il Paese stesse uscendo dalla guerra, ma quanto è avvenuto a Bangui pone grossi interrogativi: com’è la situazione?
La vita nella capitale era un pochino più tranquilla, perché qui l’Onu ha investito molto, con il grosso dei militari. Il problema è che il resto del Paese non interessa quasi a nessuno, ed è in mano ai ribelli. I fatti di Bangui sono una sorpresa fino a un certo punto perché da tempo abbiamo l’impressione che la calma sia molto apparente e gli accordi zoppichino. Il governo non ha abbastanza forza per imporre gli accordi firmati ma che in ogni modo non pongono condizioni sufficientemente chiare e così le truppe rimangono sul territorio. Poco prima dell’attacco alla chiesa, le forze armate locali avevano arrestato uno dei ribelli che vivono nel quartiere Pk5 di Bangui e le sue milizie per reazione hanno assalito la chiesa che si trova al confine di questa zona. La tensione è alta e c’è la paura che s’inneschino vendette e reazioni.

Si è tornato a scrivere che lo scontro è tra i musulmani della Seleka e i cristiani anti-Balaka: è così?
Noi cerchiamo sempre di distinguere molto, perché non vogliamo dare una connotazione religiosa: fin dall’inizio del conflitto abbiamo cercato di evitare di parlare di cristiani e musulmani. È vero che tra gli anti-Balaka ci sono alcuni cristiani, ma mai nessuno ha minimamente appoggiato e nemmeno apprezzato la loro iniziativa. Non sono milizie cristiane: è gente che si mette insieme per reazione contro le violenze, a volte per ragioni etniche, spesso economiche. Certo, quando truppe assaltano una chiesa come a Bangui, la reazione è molto forte. Da parte della Chiesa le indicazioni sono però chiare, ma accanto allo sforzo di calmare gli animi servono risposte forti: non si può lasciare gente armata in centro alla città, non si può permettere a dei banditi di entrare in una chiesa o in una moschea.

Che significa essere missionario in terra di conflitto?
Innanzitutto portiamo la Parola di Dio con il suo messaggio di liberazione, che tocca tutte le dimensioni, e va in profondità. Poi portiamo avanti un impegno formativo: abbiamo venti scuole nel Paese e cerchiamo di fare attenzione che ci siano anche ragazzi musulmani insieme ai bambini cristiani. La speranza è nel futuro anche se vediamo già giovani che hanno avuto una buona formazione e adesso hanno idee abbastanza chiare. Poi continuiamo a fare un lavoro di riflessione per cercare di tenere la gente attenta ai problemi reali, a non accontentarsi, a non lasciarsi guidare dalla voglia di vendetta. C’è anche tutto l’aspetto del perdono e della riconciliazione: io tocco con mano nelle confessioni quanto stia effettivamente iniziando a passare questo messaggio. Poi con le nostre realtà come Giustizia e pace o la Caritas lavoriamo molto per aiutare tutti e per insegnare ad aiutare. La Chiesa in Centrafrica è oggi l’unico luogo di rifugio e di sicurezza e tutti sanno che la Chiesa è aperta a tutti. Sentire che c’è bisogno di dare rifugio è ciò che mi fa restare.

Il sottotitolo del libro appena pubblicato è una frase di Giovanna d’Arco: “Bisogna dare battaglia perché Dio conceda vittoria”. Perché questo riferimento?
Ai giudici che cercavano in ogni modo di metterla in trappola, e dicevano a Giovanna che se Dio era onnipotente non c’era bisogno che lei combattesse, lei con semplicità dice questa frase che è un trattato di teologia: Dio è lì che dà una mano, però bisogna darsi da fare perché se no lui non interviene. Ogni tanto lo dico ai miei cristiani: smettiamola di pregare per la pace, se non ci diamo anche da fare.