“Due domande mi vengono spontanee a chiusura delle celebrazioni in memoria del ventennale dalla morte di don Renzo Beretta.
La prima: cosa ha voluto dirci il Signore donando alla nostra Chiesa di Como don Beretta, zelante e generoso pastore, come lo definì san Giovanni Paolo II, quotidianamente impegnato in un servizio attento ai bisogni spirituali e materiali del prossimo? Siamo un dono gli uni per gli altri, un dono che lo Spirito Santo ha elargito a ciascuno perché possa rifluire su tutti. Anche don Beretta non si è “fatto da solo”, né immediatamente, sia come uomo che come cristiano e pastore. Ha ricevuto, ha condiviso, ha trasmesso. Non è stato un uomo isolato, ancorato testardamente nelle gabbie delle sue sicurezze, come spesso capita. È cresciuto, si è confrontato, si è arricchito nel tempo, formandosi, a poco a poco, alla scuola del Vangelo, letto e interpretato nella Chiesa, alla luce dei segni del tempo.
Penso, allora, alla nostra amata santa Chiesa di Como quale madre feconda, che lungo il tempo ha generato figli e figlie che hanno vissuto e testimoniato il Vangelo, esponendosi in tante modalità, fino al dono supremo della vita, come nel caso di don Renzo. Penso al nostro presbiterio, dentro il quale don Renzo ha vissuto in piena unità, stima e benevolenza con il vescovo e i sacerdoti, dove “a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune”. Una schiera di preti che hanno servito con passione, dedizione e delicatezza il popolo di Dio, senza sentirsi ne’ superiori agli altri, né migliori, né padroni. Uomini di Dio, ciascuno con una propria personalità, tra essi complementari e forti amici. Come non ricordare tra gli altri, con il vescovo Ferraroni, prima, e monsignor Maggiolini, poi, alcuni preti dalla statura alta, a cui dobbiamo molto, come don Titino Levi, don Piercarlo Contini, don Giovanni Valassina che hanno condiviso con don Renzo le gioie e le fatiche del ministero? Non posso dimenticare in questo momento un altro testimone dell’amore verso i poveri, don Renzo Scapolo. Tutte persone che si sono lasciate entusiasmare dalle intuizioni del Concilio Vaticano II quale via indispensabile per rigenerare la comunità cristiana, così da essere all’altezza di parlare, di dialogare, di servire il mondo di oggi. Preti al servizio del popolo di Dio, che hanno creduto alla dignità e quindi alla valorizzazione dei laici, uomini e donne, alla loro presenza indispensabile e fruttuosa nella Chiesa e li hanno saputo coinvolgere attivamente e responsabilmente.
Le grandi scelte non si improvvisano e dal momento che si muore come si è vissuto, don Renzo, nel dono di sè, offerto in sacrificio, ci ha sintetizzato lo scopo della sua vita: essere sacerdote e vittima, come Gesù, pane spezzato per la vita del mondo, di cui facciamo memoria ogni volta che celebriamo l’Eucaristia. Quale immagine viva di Cristo, buon pastore che dà la vita per i suoi fratelli, don Renzo ha sviluppato una viva sensibilità verso i poveri, i diseredati, gli esuli, i profughi, di qualunque provenienza e religione, persone che Dio ci ha donato perché noi ci esercitassimo nelle virtù cristiane dell’accoglienza, della solidarietà, dell’amicizia universale, in piena gratuità. La casa di don Renzo, come la chiesa parrocchiale di Ponte Chiasso, era sempre aperta all’accoglienza, in modo tale che papa Francesco avrebbe potuto già definirla un “ospedale da campo”, in cui tutti possono sentirsi accolti e amati quali figli di Dio e fratelli nostri.
E questo nonostante l’ingratitudine (che, presto o tardi, tutti possiamo sperimentare, a prova del nostro amore autentico), insieme allo sconcerto di qualche benpensante, che già allora si sentiva a disagio, perché disturbato nella sua quiete da gente estranea e forse anche di dubbia reputazione. Con questa particolare dedizione ai poveri e agli ultimi, frutto della contemplazione eucaristica, da uomo di intensa preghiera qual era, don Renzo ha saputo coinvolgere gli altri, in modo che il suo non apparisse un gesto isolato, ma che tutta la sua parrocchia si sentisse coinvolta in questa opera di carità, che non poteva rimanere un gesto da vivere solo nell’emergenza, ma uno stile consueto all’interno della vita della Chiesa. Questo è il metodo del vero pastore: non essere un navigatore solitario, che fa bene il bene, solo a livello personale, ma un timoniere appassionato, capace di coinvolgere tutto l’equipaggio, ciascuno con il proprio ruolo, tutti mossi da una medesima unità di intenti. Sì, con sicurezza e gratitudine insieme, possiamo affermare che attraverso don Renzo Dio ha visitato la nostra Chiesa di Como, le ha aperto nuovi orizzonti, le ha proposto di prendere sul serio la strada della carità, che è la prima e più convincente forma di evangelizzazione, comprensibile da tutti.
Affronto ora il secondo interrogativo: “cosa ha da dire oggi alla nostra chiesa di Como don Renzo, in questo nostro tempo così travagliato per la Chiesa e per la società?” Certamente don Renzo ci lancia un forte e impegnativo appello alla speranza, una virtù di cui oggi noi tutti abbiamo bisogno, vivendo in un clima di incertezza, di nuove forme di povertà e di depressione. Oggi la società respira ansia da paura: dell’altro, del diverso, di chi proviene da un ambiente lontano, del povero che si vorrebbe accantonare, dell’anziano, che non è ricordato o cercato da nessuno. Paura che restringe l’uomo dentro i suoi limitati spazi da difendere in ogni modo, paura che non permette di prendere decisioni stabili e definitive, anche a livello affettivo. In un clima di solitudine e di rabbia dove gli altri sono visti e incontrati non come amici, ma solo come clienti, concorrenti o soci. Don Renzo lancia alla nostra Chiesa, quindi a tutti i battezzati, un appello a vivere scelte profetiche, impegnandosi in prima persona, dentro le comunità cristiane, che non cercano certo privilegi, ma solo i modi più opportuni per servire quanti necessitano di aiuto, vicinanza, premura e tenerezza, in continuo dialogo e collaborazione con tutte le persone di buona volontà.
Don Renzo ci richiama a qualificare le nostre comunità cristiane mediante scelte profetiche che annuncino, anticipandole, uno stile di vita alternativo, fondato sulla fraternità e sul dono, dentro la cultura della Misericordia, espressioni che attraverso il nostro prossimo Sinodo dovrebbero emergere con grande evidenza. Fraternità dice “prendersi cura”, partecipazione, solidarietà, amicizia, attraverso relazioni schiette e sincere tra le persone, considerate non come numeri, nè presenze ingombranti, ma fratelli e sorelle per i quali Cristo è morto. Come cristiani, sappiamo che non solo è desiderabile, ma anche è possibile un mondo diverso dal momento che Cristo è risorto, ha già vinto ogni resistenza avversa, ci ha donato il suo Spirito, che ci spalanca la mente, il cuore e le mani per costruire ogni forma di bene, che non è mai venuto meno nel nostro ambiente, ma che anche è presente nel mondo, anche se non in forme appariscenti.
Non sono queste parole vuote, o di pura circostanza, sono un appello a coltivare una civiltà fondata sulla dignità e quindi sul rispetto di ogni persona, sulla promozione del bene comune, sull’attenzione ai più bisognosi, a partire dai giovani, che non trovano occupazione, dalle famiglie in difficoltà per incomprensioni e mancanza di dialogo, per il lavoro che non c’è, con uno sguardo d’amore anche per quanti sono affetti dalle numerose forme di dipendenza, dai profughi e dagli esuli. Forma di profezia è testimoniare che i marginali sono nel cuore della Chiesa. Don Beretta non avrebbe esitazione nell’augurarci di costruire insieme una Chiesa in cui la santità è il suo volto più bello, il suo linguaggio più immediato e luminoso. Una Chiesa che si pone al servizio del mondo, e che per questo desidera rinnovare il suo ardore spirituale e il suo vigore apostolico.