In queste settimane di isolamento e di pausa forzata delle attività, l’unica parte di noi che non riesce a stare in ozio, ma è sottoposta a superlavoro, è quella della mente.

Noi volontari e operatori della Caritas diocesana, che nella quotidianità siamo abituati a incontrare tante persone, pronti ad ascoltare e a elaborare cammini formativi e di accompagnamento – e in questo nostro lavoro esercitiamo anche dei percorsi importanti che implicano responsabilità – ci troviamo in queste settimane e in modo inaspettato a dover rinunciare a tutta questa nostra attività, fino a sentirci quasi inutili e ad avere tanto tempo per riflettere e pensare, per approfondire ciò che ci sta succedendo.

Una prima riflessione che vorrei mettere in comune è che questa situazione di stop forzato ci fa riscoprire i nostri limiti; noi che siamo abituati a decidere, a dare ad altri indicazioni su atteggiamenti da tenere, ci sentiamo limitati e impotenti di fronte a queste forze che la natura ha messo in campo, forze superiori alla nostra intelligenza, ai nostri schemi che ci sembravano scientifici e perfetti, ai percorsi pastorali che scaturiscono da questa nostra intelligenza e che, il più delle volte, fanno riferimento ai nostri desideri e alle nostre aspirazioni e non tengono conto che noi semplicemente siamo degli strumenti nelle mani di Dio per la realizzazione del suo Regno in mezzo agli uomini.

Il primo sentimento allora deve essere quello che ci fa riscoprire l’umiltà che ci richiama alla dimensione del “servo inutile”. Ci stiamo accorgendo che questa forzata inattività pastorale ci sta regalando delle classifiche dei valori di cui non possiamo non tener conto. Quelli irrinunciabili per noi sono la relazione, l’essenzialità della preghiera, la centralità dell’Eucaristia; questi sono i cardini per la vita personale e di una comunità e se due di questi – la relazione e l’Eucaristia – sono oggi per noi impraticabili nella quotidianità, la preghiera ha la possibilità di essere sviluppata, ci ricorda la Parola nell’intimità della nostra casa e del nostro cuore.

Il secondo sentimento, che questi giorni di forzato riposo e di rispetto di regole che mal sopportiamo ci stanno facendo riscoprire, è quello della povertà personale e comunitaria. Noi che nel nostro operare partiamo sempre dai nostri punti di forza ci troviamo improvvisamente poveri, ci sentiamo in balia di altri che decidono per noi, sentiamo la solitudine e la paura che la povertà estrema ci consegna: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”.

Il terzo sentimento è quello della speranza cristiana vera, che nasce dalla Croce e che ci fa superare le nostre paure esistenziali. È dalla Croce che nasce la nostra speranza di vita nuova e, allora, quelle povertà di rapporti, di mezzi, di comunità diventano improvvisamente la nostra forza se abbiamo la capacità di donarle sul Golgota a Cristo in croce, perché diventino parte integrante della sua sofferenza, del suo sacrificio per tutti gli uomini e le donne di sempre.

Vorrei allora fare un appello, perché in questi giorni, in cui umanamente sembra così difficile guardare a un futuro possibile, noi che crediamo fermamente nel Dio della Vita sentiamo fortemente il dovere di far trasparire questa dimensione della speranza cristiana, non tanto con azioni da programmare, ma con vicinanza e condivisione, sapendo superare tutte quelle divisioni esistenziali che segnano fortemente le nostre comunità.

La prima carità che possiamo testimoniare e vivere è proprio quella che ci fa riscoprire fratelli.

Roberto Bernasconi
direttore della Caritas diocesana di Como

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