La pandemia da coronavirus ha lasciato un segno indelebile nella nostra diocesi. Davvero alto il numero di coloro che sono stati contagiati da questo virus, così come sono molte le persone che hanno perso la vita a causa del Covid-19, fra loro anche sei nostri sacerdoti e diverse religiose. Guardando nella cerchia di familiari, amici e conoscenti, in Lombardia tutti hanno avuto a che fare con il coronavirus, che ha messo alla prova e costretto a ripensare alla propria vita. Fra i sacerdoti che, in prima persona, hanno vissuto l’esperienza della malattia, c’è don Marco Zubiani, prevosto di Ardenno e assistente dell’Azione cattolica diocesana. Ha raccolto la richiesta di condividere, con i nostri lettori, il racconto dei suoi giorni in ospedale. Sono state settimane non semplici, a causa di una forma di contagio particolarmente severa. Ringraziamo don Marco per averci reso parte di questa esperienza così delicata della sua vita. «Per descrivere quello che ho vissuto faccio riferimento all’alluvione che ha colpito la Valtellina più di trent’anni fa: ha allagato il fondo valle, ha fatto crollare case; in alcuni edifici i muri portanti e i pilastri hanno retto alla furia delle acque e si è successivamente provveduto a ristrutturarli, mantenendo la vecchia struttura. La malattia è stata come un’alluvione che ha messo a dura prova la mia vita ma non ha fatto crollare le mie convinzioni: in questi anni ho sempre pregato il Salmo 89 che ci ricorda che noi siamo come l’erba, come il fiore del campo, siamo polvere. Ho scelto di vivere questa fragile vita donandola pienamente al Signore e lavorando con generosità a servizio del Vangelo e della Chiesa. Se i pilastri non sono crollati la malattia mi ha però fatto intuire come risistemare alcuni “locali” della mia vita per renderli più luminosi, accoglienti, adatti a vivere in modo migliore. In ospedale ho incontrato tante persone che si sono prese cura di me, ognuna del “pezzettino” del mio corpo di sua competenza lasciando al primario il compito di coordinare il tutto. Nella Chiesa abbiamo bisogno di imparare questo metodo: non siamo navigatori solitari, ma ognuno è a servizio della comunità dove, nel proprio ruolo, Parroco, Vescovo, Papa devono valorizzare e armonizzare il lavoro di ogni fedele.
Ho vissuto questi giorni dalla parte del malato, dove si dipende in gran parte dagli altri e tutto può diventare un problema… Hai bisogno di qualcuno che risolva le tue difficoltà senza fartelo pesare, con un sorriso. Troppo spesso nell’incontro con le persone abbiamo fretta, non ascoltiamo i loro problemi o non li consideriamo degni di attenzione. Guardare il mondo col pigiama invece che con giacca e cravatta ti aiuta a renderti più attento agli altri, a dare un peso diverso alle situazioni. L’emergenza corona virus ha messo il personale sanitario nella necessità di proteggersi con tute, mascherine, caschi, guanti (a volte tre paia uno sopra l’altro) e questo li rendeva quasi irriconoscibili. Mi veniva in mente il “tornino i volti” del Vescovo Diego. E chi più, chi meno, riusciva a trasmetterti una carica di umanità, di simpatia, di fiducia e di incoraggiamento con un gesto, uno sguardo, un sorriso o una parola… La vita da degente è monotona, ma scandita da “riti” che ti danno sicurezza: l’ora delle medicine, la temperatura e la pressione da misurare, colazione pranzo e cena, il passare di medici e infermieri. Penso alla vita di tanti nostri anziani e ammalati che vivono questa monotonia tutti i giorni dell’anno nelle loro abitazioni o nelle case di riposo. C’era una volta la premura di andare a trovarli ogni primo venerdì del mese per la confessione e la comunione; un rito atteso che portava un raggio di luce. Tradizione che forse abbiamo perso e ci rende più poveri di umanità e di vera carità cristiana. I pilastri e i muri maestri sono rimasti in piedi e di questo ringrazio e ringraziamo il Signore; insieme impegniamoci per rendere più luminose e belle le “stanze” della nostra vita, delle nostre comunità».
don MARCO ZUBIANI