Condividiamo la riflessione del direttore del nostro Settimanale, don Angelo Riva sulla scomparsa di papa Francesco.
«Papa» sta per «papà». E cosa succede quando muore un papà? Semplice: restano degli orfani. Per cui, con la morte del Papa, siamo diventati tutti un po’ orfani. Nel caso di papa Francesco, poi, la particolarità sta proprio in quel «tutti». Perché è un «tutti» che non abbraccia solo i fedeli cattolici, e neanche solo i credenti in Dio sparsi per la terra, ma coinvolge proprio ciascuno. Ognuno di quei «fratelli tutti» (titolo della seconda enciclica di Bergoglio) che sono appunto i figli d’uomo che compongono l’unica famiglia umana. Non c’è retorica nel dire che, con la morte di papa Francesco, ogni figlio d’uomo sparso sull’orbe terracqueo si ritrova ad essere un po’ più orfano. Perché Francesco è assurto a rappresentante di tutti, in questo nostro mondo globale che è di fatto un enorme villaggio connesso, e nel quale o si sta a galla tutti insieme, o chi per primo cola a picco inesorabilmente trascina con sé gli altri. Papa Francesco è stato il profeta di un mondo unito. O meglio: di un mondo da unificare. Lo capimmo perfettamente il 27 marzo 2020: quel Papa solo nella piazza livida e deserta, al cospetto di tutto il mondo unificato dal virus. Ma lui lo aveva già detto molto prima. Per esempio stigmatizzando le divisioni della «terza guerra mondiale a pezzi». Oppure profetizzando «l’unità più grande dei conflitti», e «il tutto superiore alle parti». Additando così come modello per l’umanità intera non «il muro» (che separa), e nemmeno «la sfera» (che unisce, ma omologando tutti), ma «il poliedro»: ossia l’armonia dei diversi che si uniscono restando diversi. Eco umano di quei Tre divini, uguali, diversi e uniti. Papa Francesco è stato la massima autorità morale e spirituale di questo nostro mondo globalizzato nelle sue frenetiche contorsioni e fibrillazioni (le guerre, lo spostamento dei popoli, il saccheggio del creato, l’economia dello scarto). Talmente unitario, questo Papa, da risultare divisivo, agli occhi di chi vorrebbe rialzare i muri.
Questa passione per l’unità si è riverberata ovviamente anche all’interno della Chiesa cattolica, con l’invito a «includere tutti». «Todos, todos, todos», ha ripetuto Francesco ai giovani del mondo convenuti a Lisbona lo scorso anno. La Chiesa mamma: accogliente, inclusiva, serva di tutti (e ci risiamo…), madre di misericordia, ospedale da campo per ogni figlio d’uomo pestato dalla vita. Chiesa che ascolta Gesù che bussa alla porta: ma non solo per farlo entrare (primato assoluto della spiritualità, dei sacramenti, della preghiera), bensì anche per «uscire» Lei stessa incontro a Lui dove Lui si trova, cioè nelle periferie del mondo e nel volto dei più poveri. Commentando, due giorni prima di morire, la via Crucis del Venerdì Santo – un testo vertiginoso: probabilmente il testamento spirituale di un pontificato – papa Francesco si è soffermato sull’ottava stazione: le donne di Gerusalemme. Queste «madri della Chiesa» che compatiscono e piangono il Figlio, proprio mentre gli apostoli (vescovi e preti) sono in rotta: immagine perfetta di una Chiesa più femminile, più materna, più inclusiva, più capace di tenerezza e di misericordia. Papa Francesco è stato il Papa della «conversione pastorale» della Chiesa: non certo come risultato raggiunto, ma come obiettivo su cui d’ora in poi lavorare. Alla Chiesa serve infatti concretezza di madre, perché le «idee» teologiche ci sono, ma guai se perdono grip sulla «realtà». E serve anche capacità di rigenerazione e di accompagnamento delle singole persone, perché i «tempi» graduali di crescita delle persone e delle coscienze sono più importanti degli «spazi» di potere controllati e gestiti dalla Chiesa. Talmente pastorale, questo Papa, da risultare poco dottrinale (se non addirittura profanatore della dottrina), agli occhi di qualche miope prelato troppo intento a guardare indietro nello specchietto retrovisore.
Don Angelo Riva
Qui sotto alcune immagini della basilica di Santa Maria Maggiore, dove, come da espressa richiesta del Santo Padre nel suo testamento, si sta allestendo lo spazio che accoglierà le sue spoglie.
Dal testamento di papa Francesco:
Sentendo che si avvicina il tramonto della mia vita terrena e con viva speranza nella Vita Eterna, desidero esprimere la mia volontà testamentaria solamente per quanto riguarda il luogo della mia sepoltura.
La mia vita e il ministero sacerdotale ed episcopale ho sempre affidato alla Madre del Nostro Signore, Maria Santissima. Perciò, chiedo che le mie spoglie mortali riposino aspettando il giorno della risurrezione nella Basilica Papale di Santa Maria Maggiore.
Desidero che il mio ultimo viaggio terreno si concluda proprio in questo antichissimo santuario Mariano dove mi recavo per la preghiera all’inizio e al termine di ogni Viaggio Apostolico ad affidare fiduciosamente le mie intenzioni alla Madre Immacolata e ringraziarLa per la docile e materna cura.
Chiedo che la mia tomba sia preparata nel loculo della navata laterale tra la Cappella Paolina (Cappella della Salus Populi Romani) e la Cappella Sforza della suddetta Basilica Papale come indicato nell’accluso allegato.
Il sepolcro deve essere nella terra; semplice, senza particolare decoro e con l’unica iscrizione: Franciscus.
Le spese per la preparazione della mia sepoltura saranno coperte con la somma del benefattore che ho disposto, da trasferire alla Basilica Papale di Santa Maria Maggiore e di cui ho provveduto dare opportune istruzioni a Mons. Rolandas Makrickas, Commissario Straordinario del Capitolo Liberiano.