CLAUDIO CETTIÈ ufficialmente in pensione dal 31 dicembre scorso, ma resta uno tra i principali fautori del processo di rinnovamento che ha attraversato il mondo della malattia mentale a Como negli ultimi quattro decenni. Il dott. Claudio Cetti ha di fatto contribuito, in 40 anni di servizio, nel rendere la psichiatria comasca un modello di riferimento regionale e nazionale, combattendo il pregiudizio nei confronti dei pazienti con disagio psichico, ai quali ha dedicato una vita di studi e cure, nonché l’ideazione di numerose iniziative d’inclusione sociale. Il Settimanale lo ha incontrato in un ufficio del monoblocco del vecchio S. Anna. Uno sguardo, il suo, a 360° sul mondo del disagio mentale che ha avuto il suo cuore pulsante proprio dentro l’Ospedale Psichiatrico del S. Martino.

Dott. Cetti, quando ha mosso i suoi primi passi dentro l’ospedale psichiatrico del S. Martino?

«Erano i primi anni ’70, mi ci avvicinai come studente. All’epoca chi aveva problemi di salute mentale era considerato una persona stravagante, preferibilmente da evitare. In realtà si ingnorava che tutti possiamo avere a che fare con questo mondo».

Che realtà era allora l’ospedale psichiatrico?

«Era un luogo di cura e di contenimento. I colleghi che ho conosciuto cercavano di prestare assistenza con i mezzi di cui disponevano, vivendo in una sorta di mondo a sé. L’ospedale psichiatrico era una  città autosufficiente, dotata anche  di una fattoria. Quasi una monade arrivata ad accogliere fino ad un migliaio di pazienti. La normativa prevedeva che i malati venissero valutati dopo un periodo di osservazione presso i padiglioni maschili e femminili, dopo di che si provvedeva alla loro eventuale dimissione o all’inserimento nel circuito dei padiglioni interni. Alcuni dei pazienti erano autonomi e lavoravano presso la fattoria del presidio, altri rimanevano nei padiglioni, con la libertà di muoversi solo nei cortiletti interni».

Quando arrivano i cambiamenti più significativi sul fronte dell’assistenza ai malati?

«A partire dal ‘76 (la legge Basaglia, che decreta la chiusura dei manicomi, è del ’78, ndr) si innesca un significativo processo di riorganizzazione del presidio, con la  sua settorializzazione. I  padiglioni dell’ospedale vengono di fatto divisi in settori e affidati a territori diversi, sull’onda della riforma della psichiatria francese. Nel ’78 viene aperto il reparto di psichiatria presso l’ospedale S. Anna di Como e prende il via un graduale processo di implementazione di tutte le attività territoriali, con un significativo investimento di risorse».

 

Com’è oggi l’approccio nei confronti della salute mentale?

«Il clima è molto migliorato, anche se c’è ancora da lavorare tanto, anche perché i problemi cambiano e le vecchie modalità di approccio e di presa in carico dei bisogni di salute mentale non bastano più, e sono necessarie nuove modalità ».

Ma di che numeri stiamo parlando, oggi?

«Tra dipendenze, neuropsichiatria infantile, psichiatria dell’adulto, disabilità direi oltre i 10 mila casi in provincia di Como…»

Che cos’è oggi il S. Martino?

«Vi sono al suo interno strutture psichiatriche, comunità, un Centro diurno, un Hospice, molte associazioni di volontariato, servizi di cura del parco affidati ad ex pazienti dell’Opp… Un arcobaleno di attività e servizi, insomma, privi però di un progetto organico comune. È un luogo che ha mantenuto la sua vocazione di accompagnamento e cura, con servizi diversi, che andrebbero però resi più omogenei e legati tra loro. Occorrerebbe insomma un progetto integrato che valorizzi le anime che oggi convivono, in maniera un po’ disomogenea, all’interno di questo spazio, offrendogli la possibilità, con l’aiuto e l’interessamento della città, di tornare a vivere».

L’intervista completa sul Settimanale numero 5