Paolo Borsellino diceva “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene”. A quasi 25 anni dalla sua scomparsa stupisce la lucidità con la quale sapeva osservare la realtà che viveva con analisi ancora oggi attuali.
Succede ad esempio che alcuni giorni fa, a Mariano Comense, viene arrestato Salvatore Giuseppe Corigliano, per scontare una pena residua di 3 anni e 7 mesi di reclusione per associazione di tipo mafioso. Nel 2008, infatti, Corigliano era stato indagato e in seguito condannato nell’ambito dell’inchiesta “Ulisse”, prosecuzione di “Infinito”, finalizzata ad accertare la presenza di locali di ‘ndrangheta trapiantate al nord. Il Tribunale di Milano ha ricostruito che Corigliano era una figura di spicco della locale (nel gergo ‘ndranghetistico indica il livello territoriale dell’organizzazione) di Seregno e personaggio, secondo le indagini, che avrebbe dovuto sostituire Antonino Belnome, nel frattempo pentitosi, nella conduzione della stessa locale.
Una notizia, questa, passata nella quasi totale indifferenza dei mezzi di informazione locali, sia tradizionali che on-line.
Appena un anno fa la notizia di 28 affiliati, arrestati con l’accusa di gestire lo spaccio di stupefacenti in Brianza oltre ad una attività di estorsione nei confronti di diversi commercianti del Marianese, era stata accolta con un misto di preoccupazione, orgoglio e sdegno, con una grande mobilitazione da parte di cittadinanza e istituzioni ma anche con un generale “noi non ne sapevamo niente” da parte di alcuni enti, in particolare di rappresentanza delle realtà produttive.
Un altro importante osservatore dei fenomeni mafiosi, Roberto Saviano, alcuni giorni fa, sulle colonne di Repubblica, interrogandosi proprio sul “come raccontare la mafia” rifletteva su come in Italia ci si trovi di fronte ad un cortocircuito per il quale parlare di mafia venga accostato una logica di delegittimazione: parlare di presenza mafiosa in un territorio è percepito come un tentativo di gettare fango sul quel territorio, di screditare le istituzioni locali, di mortificare le persone oneste che vi vivono.
Credo che sia una delle facce della stessa medaglia, assieme ad un sistema di informazione, che per i motivi e le logiche più diverse, si ferma spesso al lato sensazionale di una notizia, senza più la volontà o la capacità di approfondire un fenomeno, di andare ad indagarne le cause o prospettarne le conseguenze.
A Mariano Comense è avvenuto semplicemente un arresto: non uno sparo, non un incidente, non una vetrina infranta o una macchina bruciata. Nulla che possa destare una qualche pericolosità sociale e quindi nulla che meriti di essere raccontato, descritto, narrato al pubblico. Un banale arresto non fa notizia, anche se l’arrestato è il personaggio chiave di una locale di ‘ndrangheta stabilmente attiva e presente nel Nord Italia, a pochi chilometri da noi.
Se c’è una cosa che sappiamo delle organizzazioni mafiose – forse l’unica che sappiamo senza dubbio alcuno – è che adorano il silenzio, amano l’ombra e gongolano quando non le vediamo, e che sono diventate abilissime a non farsi vedere sfruttando le nostre debolezze e, come ha ricordato Saviano, anche il nostro orgoglio.
Credo che, se davvero vogliamo contrastare la presenza mafiosa nei nostri territori, siamo tutti chiamati ad un netto salto di qualità: privati cittadini ed istituzioni, associazioni di categoria ed imprenditori, forze dell’ordine e terzo settore. Siamo tutti chiamati ad essere attori consapevoli e attenti alla quotidianità della realtà che viviamo, a saperne leggere i cambiamenti e a coglierne i segnali di allarme.
Il nostro problema, per tornare alle parole del giudice Borsellino, non è tanto il “quanto” parliamo di questi fenomeni, ma piuttosto il “come”.
Perché se da un lato siamo pronti a scendere in piazza e organizzare fiaccolate e convegni alla prima auto bruciata, alla prima vetrina infranta da dei proiettili, alla prima retata delle forze dell’ordine, per rivendicare con forza che quelle “cose” non ci appartengono, dall’altro, passata l’indignazione, succede troppo spesso che mettiamo da parte il problema. Almeno fino alla volta successiva.
E questa nostra attenzione discontinua finisce per sortire gli effetti opposi di quelli sperati, mentre dall’altra parte c’è chi non aspetta altro che si abbassi la guardia: ogni volta che ci rassicuriamo che certi fenomeni non ci riguardano, ogni volta che ci affidiamo alla sola indignazione o quando pensiamo che un semplice arresto non faccia notizia.
Stefano Tosetti
Libera – associazioni nomi e numeri contro le mafie