Una settimana nel segno delle legalità. Cantù ospita, dal 25 al 31 ottobre, “Noi siamo loro”, un denso programma di iniziative di sensibilizzazione e contrasto alle mafie. Non casuale la scelta di Cantù, un contesto territoriale che ha visto negli anni crescere in maniera significativa episodi di criminalità di matrice mafiosa.

La settimana inizierà con l’inaugurazione, in piazza Garibaldi, della teca contenente i resti della Quarto Savona Quindici, la Fiat Croma sulla quale persero la vita gli agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo, di scorta al magistrato Giovanni Falcone e alla moglie, Francesca Morvillo, proprio quel lontano 23 maggio 1992, giorno della Strage di Capaci, quando venne distrutta dalla deflagrazione di oltre 500 chili di tritolo.

Per l’occasione Il Settimanale ha intervistato Tina Montinaro, moglie di Antonio. Condividiamo alcuni passaggi dell’intervista che potete trovare completa sull’edizione cartacea di questa settimana.

 Tina Montinaro e il marito Antonio, morto a Capaci

Tina, che cosa ricorda di quel 23 maggio 1992?

«Ricordo tutto, sfortunatamente. Per me è stato l’inizio di una vita nuova, che non avevo scelto. Una vita senza Antonio, con delle responsabilità doppie, come madre e come moglie di un uomo che aveva dato la vita per lo Stato. E sono andata avanti, spinta dall’orgoglio di essere stata accanto ad una persona straordinaria. Avevo accettato di sposarlo non soltanto perché era un bel ragazzo – e lo era! – ma soprattutto per quello che aveva dentro. Ho condiviso le sue scelte quando era in vita, e ho voluto portarne avanti la memoria e lo spirito anche dopo. Aggiungo anche che per troppi anni quei ragazzi sono stati ricordati semplicemente come la scorta di Falcone, come se non avessero un’identità. Ecco, io ho cercato di dare loro un volto, una storia».

Suo marito rischiava la vita ogni giorno, come potevate sopportare un peso così schiacciante?

«Cercavamo di non pensarci, anche perché Antonio era una persona allegrissima, molto aperta, e quel poco tempo che trascorreva a casa appariva sempre spensierato, tranquillo. C’è anche da dire che il clima di allora in città era quello che era: Giovanni Falcone era l’uomo più a rischio d’Italia… ed io ben sapevo di non aver sposato il corriere del latte, ma un uomo che lavorava accanto ad un possibile obiettivo della criminalità. Le volte che ne parlavamo Antonio era molto chiaro in proposito: “Il giorno che decideranno di farlo mi verrai a prendere con il cucchiaino, perché di me non resterà niente” mi diceva. Ne era perfettamente consapevole, e questo la dice lunga sulla grandezza di quegli uomini.  A me non piace definirli eroi, ma pur essendo coscienti dei rischi che correvano non si tirarono mai indietro. Allora vivevamo in una città in cui si contavano morti ammazzati ogni giorno».

Come le fu comunicata la notizia dell’attentato?

«Fu un’amica ad avvisarmi. Avevo la televisione spenta e non mi era giunta alcuna notizia dell’esplosione. Chiamai immediatamente la Questura per avere notizie, ma non seppero dirmi chi era morto o chi era vivo. Non riuscivano a trovare l’auto della scorta, poi rinvenuta a 300 metri dal luogo dell’esplosione. La comunicazione che nessuno si era salvato mi venne data una volta arrivata presso il commissariato di polizia».

Si ricorda spesso chi ha vissuto la prima linea della lotta alla mafia, pagando anche con la vita, ma poco la fatica, l’impegno, la responsabilità delle mogli, delle compagne che hanno affiancato questi uomini. Lei come ha trascorso quei cinque anni dopo l’assegnazione di suo marito alla scorta di Falcone?

«Mio marito non fu assegnato a quell’incarico. Lo scelse. Venne a Palermo nel 1986 quando iniziava il Maxiprocesso e si innamorò di quella grande figura che era Giovanni Falcone, così decise di proporsi per far parte della sua scorta. Nel mentre ci sposammo. Certo, il ruolo delle mogli è importante, perché devi stare accanto a un uomo di cui riesci poco a capire e a sapere di quello che fa fuori. Sai che svolge un mestiere pericoloso, eppure cerchi di stargli accanto, di comprenderlo. Lui era un padre molto attento e presente, quel poco tempo che trascorreva a casa, ma poi ero io a gestire i due bambini. In cinque anni di matrimonio ho trascorso un solo Natale con mio marito. Ma non mi sono mai lamentata, perché se sposi un uomo che ha compiuto determinate scelte, è inutile che poi avanzi pretese che possano metterlo in imbarazzo o innervosirlo. Pertanto si andava avanti così».

Com’è cambiata la sua vita dopo la scomparsa di suo marito?

«Radicalmente. Mi sono ritrovata, le ripeto, a vivere una vita che non avevo messo in conto. Sentivo, però, di aver avuto la fortuna di essere stata accanto ad un grande uomo, e avevo due bambini da crescere. Così mi sono rimboccata le maniche, e sono andata avanti. A differenza di tante donne che stanno accanto a degli uomini che non servono, io dopo 29 anni continuo ad esserne orgogliosa, anche perché mio marito continua a riempirmi la vita. Giro l’Italia, sono sempre in mezzo ai giovani, porto il suo messaggio dentro le scuole di polizia».

Leggete l’intervista completa sul Settimanale di questa settimana.