La narrazione della Passione di Gesù è affidata, quest’anno, all’evangelista Marco, il quale presenta ai suoi destinatari – i primi cristiani della Chiesa di Roma – la Passione allo stato puro, senza, cioè, interpretarla. Si tratta di una scelta ben precisa: se è vero che la Chiesa nasce per un atto di fede dei discepoli nella Risurrezione, non è possibile dimenticare la sofferenza e la morte di Cristo che l’hanno determinata. Soprattutto in quel rese lo spirito (cfr. Mc 15, 37b), Marco esorta a contemplare la grandezza dell’opera del Padre che, nel contesto del più grande fallimento umano, l’uccisione del Suo Stesso Figlio fatto uomo, plasma, mediante l’effusione dello Spirito Santo, il popolo della Nuova Alleanza. Il progressivo abbandono, subìto da Gesù da parte di tutti, fa emergere la potenza di Dio, che salva l’uomo da un baratro profondo di peccato e di morte, e invita il cristiano, soprattutto nelle afflizioni e nelle prove, a gloriarsi della Croce di Cristo Signore, salvezza, vita e risurrezione (cfr. Gal 6, 14). Certamente Gesù, con la sua Passione, non vanifica la sofferenza umana, al contrario, lui stesso, nel Getsemani, prova paura e angoscia; ma, proprio nell’ora drammatica della sua agonia, la porta a compimento, con un atto di affidamento filiale: «Abbà, Padre! Ogni cosa ti è possibile; allontana da me questo calice! Però, non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi» (Mc 14, 36). Di lì a poche ore, sull’altura del Golgota, un pagano, il centurione romano, ne sarà testimone e sarà il primo a gridare la sua fede in Lui: «Veramente, quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15, 39). Da allora in poi, il ricordo annuale di quei giorni è diventato centro e fondamento dell’Anno Liturgico e della stessa fede cristiana; il modo migliore per renderlo attuale e fecondo è di fare nostri gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù (Fil 2, 5b): sarà bello per tutti, allora, anche per coloro che “ritornano” solo nelle grandi occasioni, sentirsi a casa.

don MICHELE PAROLINI