Anche Como ricorda, il 27 gennaio, la Giornata della memoria, con numerose iniziative in tutta la provincia che abbracceranno un arco temporale piuttosto ampio.
In città la cerimonia di commemorazione promossa dal Comune di Como si è svolta in Biblioteca comunale venerdì 25 gennaio, con la consegna di 14 medaglie d’onore a cittadini italiani, militari e civili, deportati e internati nei lager nazisti e destinati al lavoro coatto per l’economia di guerra e ai familiari dei deceduti. Tra le realtà più attente a Como a mantenere vivo il ricordo della tragedia dell’Olocausto spicca l’Istituto di Storia contemporanea “Pier Amato Perretta”, promotore e sostenitore di iniziative, tra commemorazioni, mostre, conferenze, documentari. Anche con qualche novità in cantiere.
«La nostra ambizione – spiega al Settimanale la direttrice dell’Istituto, Patrizia Di Giuseppe – è quella di cominciare a scandagliare gli aspetti meno approfonditi per procedere lungo la via di una valutazione ad ampio respiro del tema, perché sono tante e significative le memorie disperse da recuperare. Ed è quanto per esempio avremo modo di apprendere e verificare il 29 gennaio a Villa Olmo, quando Elisabetta Lombi illustrerà appunto il nodo del contributo italiano alla persecuzione antiebraica, oppure il 26 gennaio a Rebbio, quando si potrà assistere alla proiezione del film-documentario “Westerbork” che attesta un dato poco indagato dalla storiografia, quello della complicità delle componenti extratedesche con le persecuzioni, dal momento che nel campo olandese di transito di Westerbork la struttura organizzativa era affidata agli stessi ebrei. Ma l’argomento andrebbe ulteriormente approfondito, in quanto il collaborazionismo europeo alle politiche nazionalsocialiste fu molto più forte ed esteso di quanto si pensi, a cominciare proprio dal terreno dell’antisemitismo. Ed è non a caso quanto dimostra lo spettacolo teatrale “Brava gente” che andrà in scena alle 20.45 di domenica 27 gennaio presso il Municipio di Lurago d’Erba, rappresentazione che è nata proprio nel nostro istituto allo scopo di far luce sul sostegno al nazismo che fu garantito da molti paesi dell’Europa degli anni trenta e quaranta».Tra gli eventi in calendario dall’Istituto anche un corso di formazione sul fascismo e le leggi razziali rivolto agli insegnanti che sarà avviato in febbraio.
Tra le memorie comasche, ancora lucide e presenti, dell’Olocausto spicca quella di Ines Figini, classe 1922, sopravvissuta ai campi di concentramento di Mauthausen, Auschwitz-Birkenau e Ravensbrück e insignita dell’Abbondino d’Oro nel 2004. Pubblichiamo in seguito un breve stralcio della sua testimonianza rilasciata al Settimanale lo scorso anno.
Ines qual è il ricordo più vivo che ha della sua detenzione?
«La durezza del lavoro e la noia della vita del campo, ogni giorno inesorabilmente uguale all’altro».
Che cosa rammenta del suo arrivo nel campo di Auschwitz?
«Il primo ricordo che ho vivo è il treno dentro Birkenau e il rumore delle porte arrugginite dei vagoni che si aprono. Poi lo sgomento. Noi ragazze eravamo giovani, ed in un salto dal vagone fummo a terra. Ma c’erano anche donne in stato interessante, anziani, bambini. Rammento i soldati salire sul vagone, e a calci o a colpi di frustino, far scendere o buttar giù chi non ce la faceva. Poi gli anziani, le donne incinte, i bambini vennero messi in fila e caricati su dei camion. Allora non sapevamo dov’erano destinati. Più avanti avremmo saputo che venivano gasati…»
Come fu il primo risveglio ad Auschwitz?
«Alle grida di una kapò: “aufstehen”, “aufstehen”, “alzatevi”, “alzatevi”. E chi non era sufficientemente lesto si beccava i colpi di frustino che faceva sibilare nell’aria. Erano le kapò che avevano l’incarico di vigilare su di noi. I soldati delle SS non erano autorizzati ad accostarsi, tanto eravamo sporche, lacere e imbruttite da quella vita».
Non ha mai perso la speranza?
«No, ho sempre avuto fiducia che ce l’avrei fatta. Mi dicevo: “Mia mamma troverà un’altra Ines”. Sapevo che a tornare sarebbe stata una persona diversa, perché il dolore acuisce la sofferenza, e la sofferenza ti matura. Di fatto così fu, una volta a casa ero più in grado di comprendere gli altri. L’essere stata fianco a fianco a così tante persone, così diverse tra loro, mi aveva reso un po’ psicologa…»
Vi riusciva di pregare al campo?
«Quando tornavamo dal lavoro, in fila sempre a cinque a cinque, qualcuna iniziava a recitare il rosario, e noi la seguivamo, ma lo facevamo a bassa voce, per evitare che i soldati potessero sentirci. Ad ogni modo non pregavamo molto, ma quando lo facevamo era con intensità».
Quanto l’ha aiutata l’amicizia durante il periodo di prigionia?
«Poco. Dormivo con gli zoccoli dietro la testa, così come con la gavetta sotto la coperta. Questo perché al campo si rubava di tutto, magari per avere doppia porzione di cibo o per sostituire gli di zoccoli rotti. L’unico modo per andare avanti era contare su se stessi e avere forza interiore. Io non so dove ho trovato quella forza. Forse è stato Dio a darmela».