La celebrazione ufficiale della “Giornata della Memoria” a Como prevede un incontro pubblico nella mattina di lunedì 27 gennaio, a partire dalle ore 10, presso la biblioteca comunale Paolo Borsellino (piazzetta Venosto Lucati 1) con la partecipazione delle autorità e il contributo dell’Istituto di Storia Contemporanea Pier Amato Perretta, del Centro Studi Schiavi di Hitler, dell’I.T.I.S. Magistri Cumacini e della Consulta Provinciale degli studenti. Nel corso della cerimonia, Il Sindaco Mario Landriscina consegnerà una “pietra d’inciampo” nelle mani del nipote del cittadino comasco Aldo Raffaello Pacifici, deportato e morto ad Auschwitz nel 1944.

In questa occasione facciamo nostre le parole di Papa Francesco pronunciate ieri al termine dell’Angelus ricordando il 75° anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.

«Davanti a questa immane tragedia, a questa atrocità, non è ammissibile l’indifferenza ed è doverosa la memoria – ha affermato il Papa -: Siamo tutti invitati a fare un momento di preghiera e di raccoglimento, dicendo ciascuno nel proprio cuore: mai più!».

LA VOCE DI INES

A Como c’è una voce ancora forte e chiara che ci riporta agli anni bui dell’Olocausto. È quella della comasca Ines Figini, classe 1922, sopravvissuta ai campi di concentramento di Mauthausen, Auschwitz-Birkenau e Ravensbrück e insignita dell’Abbondino d’Oro nel 2004.

In occasione della Gioranta della memoria vi riprononiamo la sua testimonianza raccolta dal nostro collega Marco Gatti nel gennaio di due anni fa.

Ines qual è il suo stato d’animo in questi giorni, in cui la memoria rivive nei ricordi, nei gesti, nei sogni di un passato lontano?

«I ricordi riaffiorano dal profondo del cuore e si ingarbugliano tra loro, riportandomi al buio e all’angoscia di quegli anni. Non è facile dare voce ai sentimenti che provo. A volte mi domando come posso aver vissuto una tragedia così tremenda. Dopo di che vado avanti, come ho sempre fatto, perché non si può vivere di sole memorie».

 Qual è il ricordo più vivo che ha della sua detenzione?

«La durezza del lavoro e la noia della vita del campo, ogni giorno inesorabilmente uguale all’altro».

 Perché è importante oggi fare memoria di quello che è stato l’Olocausto?

«I giovani oggi non conoscono il dolore e la sofferenza. Incontrare chi li ha patiti è una preziosa occasione di crescita, un aiuto a vincere l’indifferenza, che va combattuta con ogni mezzo».

 Ripensando agli anni di detenzione che sentimenti prova?

«Quando ho deciso di raccontare la mia storia, i primi anni che giravo per le scuole sentivo l’odio stringermi lo stomaco. Poi ho scoperto il valore del perdono, e questo mi ha ridato serenità. Così ho incominciato a parlare ai ragazzi con spirito nuovo. Il perdono mi ha aiutato a risolvere tanti problemi».

 Che cosa rammenta del suo arrivo nel campo di Auschwitz?

«Era sera. Il primo ricordo che ho vivo è il treno dentro Birkenau e il rumore delle porte arrugginite dei vagoni che si aprono. Poi lo sgomento. Noi ragazze eravamo giovani, ed in un salto dal vagone fummo a terra. Ma c’erano anche donne in stato interessante, anziani, bambini. Rammento i soldati salire sul vagone, e a calci o a colpi di frustino, far scendere o buttar giù chi non ce la faceva. E così ai piedi del treno la terra era piena di gente urlante di terrore e dolore. “Sono finita all’inferno?” mi chiesi. Una cosa del genere non l’avevo mai vista. Poi gli anziani, le donne incinte, i bambini vennero messi in fila e caricati su dei camion. Allora non sapevamo dov’erano destinati. Più avanti avremmo saputo che venivano gasati…»

 E a voi invece che cosa accadde?

«Fummo selezionate dal capo degli ufficiali, che aveva l’incarico di scegliere i detenuti adatti al lavoro… questa è robusta e lo può fare… questa non lo è quindi no… Poi ci condussero alle docce. Noi continuavamo a guardarci sconcertate, domandandoci dove fossimo capitate. Capimmo di essere prigioniere quando fummo marchiate sul braccio con un numero progressivo. Allora compresi cosa fossero i tatuaggi che così tanto ci incuriosivano quando, da bambini, li vedevamo sulle braccia dei marinai».

 Come le fu marchiato il numero?

«Con una siringa contenente dell’inchiostro. L’incaricato ci pungeva con l’ago e ci iniettava del liquido colorato ad una velocità impressionante».

 Quindi che cosa accadde?

«Ci vennero portate via le nostre cose e ci fu consegnata la divisa: un “vestito” grigio e blu in cotone grezzo, e una giacca che già riportava il numero che ci era stato marchiato sul braccio. Poi, con lo stomaco che gorgogliava per la fame, fummo condotte dove avremmo dovuto dormire, cuccette in legno predisposte per ospitarvi cinque persone ciascuna. Spesso, nei momenti di affollamento, il numero raddoppiava, così nello stesso spazio dovevamo disporci dormendo cinque di testa e cinque di piede. E quando di notte qualcuna aveva necessità di alzarsi, per il freddo o per un bisogno, erano urla e pugni perché così facendo disturbava tutte le altre».

 Come fu il primo risveglio ad Auschwitz?

«Alle grida di una kapò: “aufstehen”,“aufstehen”, “alzatevi”, “alzatevi”. E chi non era sufficientemente lesto si beccava i colpi di frustino che faceva sibilare nell’aria. Erano le kapò che avevano l’incarico di vigilare su di noi. I soldati delle SS non erano autorizzati ad accostarsi, tanto eravamo sporche, lacere e imbruttite da quella vita».

 Come imparaste in che modo dovevate comportarvi?

«Il disorientamento era totale, non conoscevamo il luogo, gli spazi, la lingua…dove potersi lavare… dove mangiare. Nessuno rispondeva alle nostre domande perché nessuno ci capiva, erano tutte straniere. Così ci affidammo all’esperienza di quante erano arrivate prima di noi, seguendole nei loro movimenti. Trovammo in questo modo i bagni, lunghi stanzoni con un rubinetto ogni 40 centimetri, ma la calca era talmente fitta da non permetterci nemmeno ad avvicinarsi. Così mi limitavo a inumidire gli occhi e quando ci veniva distribuita quella specie di acqua bollita che avrebbe dovuto assomigliare a tè o caffè mi ci lavavo la faccia. Sempre seguendo le altre scoprimmo anche dove fossero le latrine. E accedervi per me fu un ulteriore strazio. Un lungo stanzone con delle buche su cui le donne si posavano per espletare i loro bisogni. Non dimenticherò mai l’immagine di quelle donne appollaiate, tutte colte da dissenteria per il freddo intenso e la mancanza di cibo. Lo stomaco mi si rivoltò per l’odore insopportabile, ma poi anche di quello spazio imparai a fare uso e, pian piano, iniziai ad abituarmi all’orrore».

 Quando incominciò a lavorare?

«Subito dal giorno seguente il nostro arrivo. Fummo incolonnate a cinque a cinque. Ogni quindici persone un soldato con un cane, pastore tedesco o doberman, vigilava sul nostro passaggio. A seconda degli ordini del militare il cane poteva metterti le zampe sulle spalle e farti sentire il soffio tremendo del suo fiato sul collo o azzannarti. Ci condussero così nei pressi di un campo dove, munite di piccone e badile, ci fu assegnato l’incarico di scavare delle buche e di collocarvi dei tubi di terra refrattaria. Quello fu il mio primo lavoro, a cui ne seguirono molti altri. Ricordo la fatica, lo sporco, le mani distrutte. A Ravensbrück, dove fui trasferita dopo Auschwitz, lavoravo in piedi, 12 ore di notte e, la settimana successiva, 12 ore di giorno, avvolgendo fili di rame su delle bobine destinate ad uso bellico».

 Non ha mai perso la speranza?

«No, ho sempre avuto fiducia che ce l’avrei fatta. Mi dicevo: “Mia mamma troverà un’altra Ines”. Sapevo che a tornare sarebbe stata una persona diversa, perché il dolore acuisce la sofferenza, e la sofferenza ti matura. Di fatto così fu, una volta a casa ero più in grado di comprendere gli altri. L’essere stata fianco a fianco a così tante persone, così diverse tra loro, mi aveva reso un po’ psicologa…»

 È ad Auschwitz che ha visto per la prima volta in faccia la morte?

«Sì, è lì che l’ho incontrata. Quando Ada Borgomainero si ammalò (un’altra operaia della tintostamperia Comense che fu deportata con Ines, ndr) qualche volta mi recavo di nascosto nel suo blocco a trovarla. In quelle occasioni per non essere notata evitavo di mangiare e saltavo il lavoro, così mi riusciva di nascondermi accanto a lei, nella sua cuccetta, tra malati di ogni genere. In quel blocco ogni volta mi colpiva la vista dei cadaveri, nudi, malnutriti, poco più che scheletri. Da quando sono tornata a casa non mi è più riuscito di vedere una persona morta, pur ben vestita la rivedevo nuda e con le ossa scoperte…»

Vi riusciva di pregare al campo?

«Quando tornavamo dal lavoro, in fila sempre a cinque a cinque, qualcuna iniziava a recitare il rosario, e noi la seguivamo, ma lo facevamo a bassa voce, per evitare che i soldati potessero sentirci. Ad ogni modo non pregavamo molto, ma quando lo facevamo era con intensità».

 Le riusciva di sognare?

«No, non ricordo di aver mai sognato ad Auschwitz. Ero così sfinita da cadere in un sonno profondo. E questo mi aiutato tanto, perché mi dava modo di riposare di più».

Oggi c’è ancora chi nega i campi di sterminio. Che cosa sentirebbe di rispondere?

«Vorrei far loro provare l’esperienza della vita di Auschwitz. Da tempo ho smesso di odiare, ma non posso restare indifferentedi fronte a chi nega la realtà dei campi di sterminio. Che cosa farebbe questa gente se si trovasse ad Auschwitz? Si tratta di persone che non sanno che cosa sia la sofferenza, una sofferenza non solo fisica, ma morale, che ti scava l’anima».

 Quanto l’ha aiutata l’amicizia durante il periodo di prigionia?

«Poco. Dormivo con gli zoccoli dietro la testa, così come con la gavetta sotto la coperta. Questo perché al campo si rubava di tutto, magari per avere doppia porzione di cibo o per sostituire gli di zoccoli rotti. L’unico modo per andare avanti era contare su se stessi e avere forza interiore. Io non so dove ho trovato quella forza. Forse è stato Dio a darmela. Come ho detto sentivo dentro di me che sarei tornata. E anche mia mamma lo sapeva. Quando eravamo ragazze ed ci trovavamo fuori casa, se mia sorella tardava di qualche minuto mia mamma la attendeva preoccupata sulla porta e la riprendeva, io invece potevo arrivare quando volevo, senza alcun rimprovero. Quando le chiesi ragione di questa diversità di comportamento mia mamma mi rispose: “Tanto tu torni sempre”. Da mia mamma avevo anche imparato il rispetto per il cibo. A casa non amavo la minestra di verdura e tendevo a lasciarne indietro i pezzetti. E mia mamma, anziché rimproverarmi, mi diceva: “Ho pagato anche quello. Se finisci tutto ti darò il resto, altrimenti no”. Questo mi ha aiutato moltissimo durante la detenzione. Quel brodo disgustoso che ci veniva somministrato al campo, con enormi chiazze di grasso, che faceva vomitare molti, io riuscivo a berlo come nulla fosse, perché avevo acquisito la corretta disciplina».

 Quando ha scoperto che nei forni venivano bruciate delle persone?

«All’inizio pensavo ci trovassimo in una fabbrica, in un opificio, visto che vedevo il camino quasi sempre fumante. Quando chiesi spiegazioni a qualcuno mi vennero spalancate le porte di quell’orrore: “Sono gli ebrei che bruciano” mi venne risposto. Ma non erano solo loro: se qualcuno di noi si ammalava e non aveva più la forza di lavorare finiva anche lui al forno crematorio, così come chi tentava di fuggire».

 Che messaggio si sentirebbe di dare oggi ai giovani?

«Ragazzi cercate di vivere con onestà e nel rispetto della verità. Su questi due pilastri dovete fondare la vostra vita, anche se non è facile essere onesti in questo mondo…»