Il 29 ottobre la Corte Costituzionale ha dichiarato che l’ergastolo ostativo non risponde ai criteri di umanità e di rieducazione del detenuto previsti dall’articolo 27 della Costituzione Italiana. La richiesta di verifica di costituzionalità era stata sollevata presso la Corte Europea dei Diritti Umani da Valerio Onida a nome di Marcello Viola, ergastolano condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso, sequestro di persona, omicidio e possesso illegale di armi, sempre dichiaratosi innocente. La Corte Europea ha emesso una prima dichiarazione di non conformità dell’ergastolo ai principi di umanità e rieducazione il 13 giugno.
A questo è seguito un ricorso dello Stato italiano presso l’Alta Camera del tribunale dell’Aja, che ha riconfermato la propria posizione ad inizio ottobre, portando alla sentenza della Corte Costituzionale.


“Il Settimanale” ha chiesto a Vittorio Nessi, consigliere di minoranza al Comune di Como ed ex magistrato, qualche chiarimento sulla questione.
Cos’è l’ergastolo ostativo? Perché è incostituzionale?
«L’ergastolo ostativo si basa sull’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario, che vieta a chi è condannato all’ergastolo per associazione a delinquere di stampo mafioso o per reati legati al terrorismo la concessione di permessi premio a meno di collaborare con la giustizia.
In Italia la legislazione carceraria prevede che l’ergastolano possa cominciare un percorso di libertà dopo 21 anni, laddove sia stato partecipe di percorsi rieducativi e abbia dimostrato un avvenuto ravvedimento. La Corte Costituzionale con sentenza passata in giudicato ha ribadito questo concetto, sottolineando che la costituzionalità dell’ergastolo sta proprio nella possibilità di accedere a permessi speciali a fronte di un percorso rieducativo. L’ergastolo ostativo poneva invece, come unica possibilità per aver accesso ai benefici, la collaborazione con la giustizia.
Ma la collaborazione presenta diverse difficoltà: ci sono casi in cui uno non può collaborare perché non c’è più nulla da scoprire o da confessare di cui lui sia a conoscenza. Prendiamo l’esempio di una persona condannata ingiustamente: perché dovrebbe collaborare? In Italia rimane valido il principio secondo cui nessuno deve essere obbligato ad incolpare sé stesso.
Collaborare in altri casi può voler dire accusare un parente stretto, un padre, un fratello. Non bisogna poi dimenticare che la collaborazione può portare a ritorsioni.
Per tutti questi motivi e altri ancora la Corte Costituzionale ha considerato che al condannato deve essere offerta la possibilità di provare il proprio ravvedimento non solo attraverso la collaborazione, in accordo con i principi di umanità e rieducazione».

Come funzionerà l’accesso ai benefici?
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Non ci sarà una liberazione di massa: il giudizio sull’effettivo ravvedimento del condannato sarà rimesso al giudice di sorveglianza, che dovrà dimostrare che il distacco dall’organizzazione mafiosa o terroristica sia effettivo anche nel caso in cui non ci sia stata una collaborazione. Se questo sarà dimostrato, il giudice di sorveglianza concederà permessi speciali e riduzioni di pena».

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