Nei giorni scorsi il ministro della Salute ugandese ha confermato il primo caso di Covid-19 in Uganda. Il governo ugandese ha posto misure molto restrittive per prevenire la diffusione del virus. Di conseguenza il dott. Tito Squillaci e gli altri volontari a Kalongo sono dovuti tornare in Italia.

La notizia ha riportato alla memoria di padre Egidio Tocalli, il medico comboniano che succedette a padre Giuseppe Ambrosoli alla guida dell’ospedale, l’emergenza Ebola del 2000.

Di seguito l’interessante racconto di padre Egidio di quei giorni.

Sono profondamente turbato e afflitto pensando al possibile scenario che la Pandemia del Coronavirus potrebbe causare a Kalongo, oltre che in tutta l’Uganda ed Africa. A questo punto mi tornano alla mente i tristi giorni da me vissuti a Kalongo nell’anno 2000.

Ricordo che Il 9 ottobre arrivò nel nostro ospedale l’ambulanza del Lacor Hospital di Gulu  che trasportava il cadavere del nostro infermiere Daniel Ayella che avevamo inviato a Gulu per un corso di aggiornamento. L’autista ci disse: «purtroppo John è morto per gastro enterite emorragica…»  Potete immaginare il dolore della famiglia e del suo villaggio. In men che non si dica si alzarono grida, pianti e lamenti che si udivano a distanza, facendo accorrere una folla numerosa. Dopo poco il corpo del defunto fu estratto dalla bara e deposto su un letto mentre le mani pietose dei familiari si affrettavano a lavarlo e baciarlo secondo tutte le tradizioni africane. Ai familiari si aggiunsero parenti ed amici e tutti accarezzavano pietosamente il povero giovane. Seguì il giorno dopo la sepoltura a cui partecipò anche tutto il personale del nostro ospedale.

Ecco però che il 12 ottobre arrivò come un fulmine a ciel sereno la notizia che il nostro Daniele era in realtà morto a causa dell’infezione del virus Ebola nel frattempo identificato a Kampala. Cosa era successo a Gulu al Lacor Hos? La mattina del 7 ottobre 2000  Cyprian Opira, il medico momentaneamente a capo dell’ospedale mentre il direttore dr Mathew Lukwiya si trova a Kampala con la famiglia, lo informa  che una malattia misteriosa, accompagnata da gravi emorragie interne, ha ucciso due degli infermieri dell’ospedale; dr Lukwiya la sera stessa si precipita al St. Mary’s, in tempo per assistere alla morte del terzo infermiere, Daniel Ayella, che viene riportato a Kalongo con l’ambulanza. Frattanto la caposala suor Maria, consegna al medico dei documenti relativi a tutte le morti sospette avvenute all’ospedale nell’arco delle due settimane precedenti il suo arrivo e, tra queste, la donna aveva identificato diciassette casi con sintomi simili. Il dr Matthew Lukwiya e Suor Maria trascorrono gran parte di quella notte leggendo reports, provenienti dal CDC e dal WHO, riguardanti possibili infezioni che causavano sanguinamento. Alla fine della loro ricerca comprendono che avrebbe potuto trattarsi di Ebola. Tutti i manuali medici riguardanti il virus allora consultabili, basati per lo più sull’epidemia che nel 1995 in Kikwit e Congo  uccise quattro pazienti su cinque, confermavano che più il paziente fosse peggiorato più sarebbe diventato contagioso. Lukwiya riconosce immediatamente la gravità della situazione e la facilità di trasmissione del virus tra gli Acholi, tribù che aveva la tradizione di lavare il corpo del defunto prima di seppellirlo. Proprio questa usanza, infatti, avrebbe favorito la diffusione della malattia. La mattina dell’8 ottobre, il direttore informa l’intera équipe medica dei suoi sospetti sul virus. Quel pomeriggio, un gruppo di anziani delle comunità locali giunge all’ospedale avvisando che intere famiglie stanno morendo nei loro villaggi. A quel punto Matthew Lukwiya, ignorando le pratiche burocratiche che avrebbero dovuto essere svolte in quei giorni, chiama il dr. Okware, il commissario ugandese per la salute pubblica, il quale invia un team dall’Uganda Virus Research Instituteper ritirare un campione di sangue infetto da analizzare. In attesa del team, il dr Lukwiya fa isolare i pazienti che potevano aver contratto il virus, secondo le direttive del WHO, in un reparto speciale, composto da tre medici, cinque infermieri e tre assistenti infermieri, tutti volontari. La diffusione del virus Ebola viene confermata e una delegazione del WHO giunge a Gulu. Dentro l’ospedale si diffonde la paura del contagio e molti chiedono al direttore di chiudere l’ospedale. Durante una riunione il dr Lukquia, diplomato in ematologia a Londra, protestante di religione ma cristiano nel cuore dice: «Possiamo essere stanchi, avviliti per la morte di persone care, possiamo avere paura in quanto persone umane e possiamo considerare, in ogni momento, la possibilità di andarcene. Abbiamo la libertà di scegliere, nessuno ci può trattenere contro la nostra volontà. Allora riposerebbe il nostro corpo, ma non il nostro spirito. Sapremmo che potevamo offrire un aiuto a chi era disperato e non l’abbiamo fatto. Se io lasciassi in questo momento, non potrei più esercitare la professione medica nella mia vita. Non avrebbe più senso per me». Il personale si lascia convincere e l’incontro termina con una canzone.

Nonostante le accuratissime precauzioni sono sufficienti pochi istanti di distrazione per essere contagiati. I dipendenti dell’ospedale lavorano fino a quattordici ore al giorno per intere settimane, avvolti in camici protettivi pesantissimi, soffocati dal torrido clima equatoriale. Tutto quello che è necessario affinché avvenga il contagio è, per il lavoratore, perdere la concentrazione per un singolo istante e, dopo aver toccato un paziente, grattarsi, ad esempio, il naso o un orecchio sotto la maschera.

All’alba del 20 novembre 2000, l’infermiere Simon Ajok è nel reparto degli infetti moribondi, che sanguinano dal naso e dalle gengive. Ajok si toglie improvvisamente la maschera dell’ossigeno per tossire violentemente e spruzza sul muro vicino un misto di muco e sangue. Il personale del turno notturno, spaventato, si affretta a chiamare il direttore Matthew Lukwiya. È probabilmente in quest’occasione imprevista che egli si ammala.

Saltato giù dal letto nel cuore della notte, “il dr. Matthew” indossa il vestito protettivo, la maschera, la cuffietta, la toga, il grembiule e due paia di guanti, ma dimentica gli occhiali o qualcosa per proteggere gli occhi. Questa piccola distrazione gli costa la vita[24]. E cosi’ il famoso ospedale fondato dai coniugi Dr Corti Piero e la moglie Lucille perdono in quei giorni non solo il direttore, ma anche tanti infermieri, suore e operatori sanitari che si sono eroicamente prodigati per soccorrere tanti infelici colpiti dal virus.

A questo punto entra in scena il nostro caro venerabile padre Giuseppe Ambrosoli.

 Padre Egidio Tocalli e padre Giuseppe Ambrosoli

Appena ci siamo resi conti che il nostro infermiere Daniele era morto a causa dell’Ebola ci siamo resi conto del gravissimo pericolo di epidemia in cui potevamo incorrere. Era evidente che tanti parenti avevano toccato il suo corpo e che avevano stretto tante mani per esprimersi il cordoglio… Che fare? Abbiamo iniziato a pregare padre Giuseppe mentre cercavamo tutti i possibili contatti da confinare immediatamente in ospedale per la quarantena in un reparto liberato in tutta fretta dai letti per creare spazio. Furono identificati alcuni volontari che abbiamo dotato delle poche maschere, occhiali e camici che avevamo… Poi con l’angoscia nel cuore si iniziarono a contare i giorni, sempre pregando padre Giuseppe. Lentamente sono trascorsi 12 giorni senza che nessuna delle persone sviluppasse febbre o diarrea con sangue. A quel punto li abbiamo rimandati a casa e nessun malato di Ebola è arrivato al nostro ospedale. Pura coincidenza? Io e chi era con me abbiamo concluso che padre Giuseppe ci avesse salvati. Possiamo senza dubbio affermare che questo è stato un “miracolo morale”, cioè non di quelli da sottoporre a un Postulatore o a una commissione teologica. Dopo tanti anni ecco di nuovo affacciarsi sull’Uganda e su Kalongo un altro possibile gravissimo nemico, il Coronavirus. Ebbene uniamo le nostre preghiere invocando con fede il nostro venerabile padre Giuseppe che certamente dal cielo continua a vegliare sulla sua  amata creatura:  Kalongo Hospital con la preziosa scuola di Ostetricia.

Egidio Tocalli

 Padre Egidio Tocalli sulla tomba di padre Giuseppe Ambrosoli