Il cielo di Lima come non si era mai visto: non più quella coltre grigia e opaca che normalmente la sovrasta, ma un cielo divenuto azzurro di giorno e illuminato di stelle la notte. Merito dalla quarantena e della conseguente riduzione del traffico. E poi ci sono i pappagalli che sono tornati a colorare le piante.
«Non ne avevo mai visto uno qui in parrocchia», ci confida don Ivan Manzoni, missionario fidei donum nella diocesi di Carabayllo, alla periferia nord di Lima. Anche queste, in fondo, sono le conseguenze del pandemia, ma la poesia finisce qui: alle prime righe di questo nostro racconto. Perché quella tratteggiata dai numeri e, soprattutto, dalle parole dei nostri missionari, è una situazione che continua ad essere drammatica.
Il Perù è oggi il secondo Paese dell’America Latina per numero di contagi da coronavirus e il sesto al mondo dopo Stati Uniti, Brasile, Russia, India e Regno Unito, ma con una popolazione di soli 32 milioni di abitanti (per intenderci gli Stati Uniti ne hanno 328 milioni e il Basile 209,5 milioni) è tra quelli dove l’incidenza del contagio è più elevata.
Non solo: seppur il numero dei morti ufficiali è ancora relativamente basso (9 mila morti) il virus sembra non voler rallentare la sua corsa e procede a tassi di 4-5 mila nuovi contagi al giorno. Si tratta comunque di cifre su cui i nostri missionari invitano alla cautela.
«È difficile credere che questi numeri siano effettivamente reali», ammette don Ivan perché «se mi guardo attorno vedo aumentare costantemente i casi positivi e le morti».
«Negli ultimi 15, 20 giorni – continua il missionario – sono state sette o otto le persone che conoscevo morte per il coronavirus solo nella nostra parrocchia, una realtà di 60 mila persone dove, ovviamente, non conosco tutti e questo significa che ci saranno molti altri casi di cui non sono venuto a conoscenza. Figuriamoci se penso ad una megalopoli come Lima che conta più di 11 milioni di abitanti, un terzo degli abitanti dell’intero Paese».
Numeri di fronte ai quali non stupisce la decisione dell’arcivescovo metropolita di Lima di tappezzare, in occasione del Corpus domini, la cattedrale con le foto di oltre 5 mila persone morte a causa del Covid-19.
Questo nonostante il Perù sia stato il primo governo dell’America Latina a decretare il blocco degli spostamenti e ad introdurre misure rigide di quarantena.
«Era il 15 marzo. Tre mesi dopo siamo, insieme al Brasile, il Paese in cui i numeri sono più elevati e dove il virus appare ancora fuori controllo», racconta don Roberto Seregni, anche lui missionario fidei donum insieme a don Ivan e don Savio Castelli.
Ma come si è arrivati a tutto questo?
«La pandemia ha messo in luce le crepe o, forse, dovremmo dire le voragini che lacerano la società puruviana da molto tempo: la disuguaglianza e la corruzione», riflette don Roberto.
«Le misure di contenimento e di prevenzione sono state prese tempestivamente in Perù – continua don Roberto –, ma in un Paese dove il 60% della popolazione non ha accesso all’acqua corrente come si fa a chiedere di lavare sempre le mani. In un paese dove pochissimi hanno il frigorifero in casa come si può chiedere di fare la spesa ogni 15 giorni. In un paese dove il 70% della popolazione vive di lavori informali come si può pretendere che la quarantena venga rispettata. La nostra gente, specie le famiglie più povere, sono state costrette ad uscire di casa per lavorare e procurarsi il cibo ed è nei mercati o presso le banche, dove sono andate per prelevare i pochi risparmi o il sussidio che si sono contagiati».
La pandemia è andata così ad aggravare una situazione sociale che nelle parrocchie dove vivono i nostri tre missionari fidei donum era già difficile: sono le terre interessate dall’ “invasione” ovvero dal flusso di persone che dalla selva o dalla sierra raggiungono la capitale in cerca di lavoro, sanità, istruzione o, anche solo, di un’opportunità. Molti di loro in questi mesi hanno deciso di fare ritorno proprio nei villaggi di origine dando seguito ad un contro-esodo che ora sembra essersi arrestato.
«Ogni giorno tocchiamo con mano il problema di tante famiglie – racconta don Ivan -, e soprattutto delle donne. Proprio nei giorni scorsi sono venuto a conoscenza di tre mamme sole con figli che sono in quarantena perché hanno contratto il virus e ora, non potendo uscire, non sanno cosa dare da mangiare ai propri figli. Per loro come per altri ci siamo attivati, come parrocchia, per garantire un sostegno alimentare, ma siamo pienamente coscienti di come tante altre realtà siano a noi sconosciute e restino nel bisogno».
Poi c’è il tema della corruzione, vera spina nel fianco del sistema sociale e politico peruviano. Il governo all’inizio della pandemia ha stanziato risorse importanti per cercare di sostenere un sistema sanitario che era già strutturalmente fragile e, in larga parte, in mano alle cliniche private. «Purtroppo di queste risorse sul territorio è arrivato ben poco. Dove sono finiti tutti questi soldi?», si chiede don Ivan.
Proprio nella parrocchia di Fatima, dove è parroco, è attivo un centro medico con alcuni ambulatori, un laboratorio analisi e spazi per terapie.
«Siamo chiusi dall’inizio della quarantena – racconta don Ivan -. Stiamo cercando di riaprire, ma per farlo sono necessari una serie di accorgimenti e messe a norma particolarmente onerose. Purtroppo i prezzi dei medicinali hanno raggiunto livelli insostenibili o, in alcuni casi, sono introvabili e questo rappresenta un problema per molti».
Proprio per dare un sostegno ai nostri tre missionari fidei donum e alle loro parrocchie la Diocesi ha deciso di destinare al Perù parte della colletta straordinaria che verrà lanciata il prossimo 5 luglio in tutte le parrocchie. Oggi più che mai non lasciamoli soli.
«Non lasciamoli soli». Il 4 e 5 luglio nelle parrocchie della Diocesi una colletta straordinaria