Un anno fa, don Roberto Malgesini veniva ucciso il 15 settembre, giorno in cui la Chiesa fa memoria della Beata Vergine Maria Addolorata, colei che, come dice il Vangelo di Giovanni, “stava” sotto la croce.

Questa sera, nella parrocchiale di San Bartolomeo – che con quella di San Rocco, dove viveva don Roberto, costituisce la Comunità pastorale Beato Scalabrini -, monsignor Oscar Cantoni ha presieduto la Messa.

«Non un caso», ha detto, perché «anche Maria ha pianto con noi per questo suo figlio amato e nostro fratello, barbaramente sottratto al nostro sguardo e alla nostra compagnia proprio un anno fa, lui che ha sempre nutrito per la comune Madre una tenera, filiale devozione».

Il vescovo Oscar ha ricordato come, nel corso dell’ultimo anno, la figura di don Roberto abbia suscitato interesse in tante persone e in molte parti del Paese. Molti si sono commossi per la sua testimonianza di vita e si sono interrogati sul modo di essere cristiani. In particolare, monsignor Cantoni ha proposto al clero diocesano di verificare come ciascuno viva il proprio ministero, a partire dai tratti visti in don Roberto, il cui stile – secondo il vescovo – non deve essere imitato, perché irripetibile, ma può essere colto.
Monsignor Cantoni ha poi ricordato le tappe di una sorta di “evoluzione spirituale” che hanno portato don Roberto ad essere quel prete che tutti hanno potuto conoscere, ricevendo di fatto, una “vocazione nella vocazione”.

Di seguito riportiamo le parole pronunciate dal vescovo Oscar durante l’omelia.

Oggi celebriamo la memoria della Beata Vergine Maria addolorata, la Madre che si prende cura di tutti noi, dal momento che Gesù, morente sulla croce, ha affidato ogni suo discepolo alle premure e alla sua sollecitudine materna.
Non è un caso che don Roberto sia stato ucciso proprio in quel giorno! Anche Maria ha pianto con noi per questo suo figlio amato e nostro fratello, barbaramente sottratto al nostro sguardo e alla nostra compagnia proprio un anno fa, lui che ha sempre nutrito per la comune Madre una tenera, filiale devozione.
Le lacrime di Maria, tuttavia, sono gemme preziose, perle di misericordia, che donano pace e consolazione, che proclamano la vittoria di Cristo sul male e sulla morte e recano a tutti la certezza di una gioia piena e duratura.


Noi crediamo che “il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani” (Tertulliano), perciò anche il sacrificio di don Roberto, come quello di altri nostri fratelli e sorelle della nostra Chiesa martire, quali don Renzo Beretta, il beato Teresio Olivelli, il beato Nicolò Rusca, la beata Suor Maria Laura, non è stato vano. La perdita di questo nostro prete è stata solo apparente, perché egli vive in Dio e dal cielo accompagna con la sua intercessione il nostro pellegrinaggio terreno.
Lungo il corso di questo anno si è sviluppato per la luminosa figura di don Roberto un interesse straordinario da parte di tante persone, in Italia e all’estero. Commossi per la sua testimonianza di vita, in quanto cristiano e prete, molti si sono sentiti interrogati sul loro modo di essere discepoli di Gesù. Vorrei che anche noi, soprattutto come presbiteri di Como, ci verificassimo sui tratti del nostro ministero sacerdotale, così come li abbiamo visto interpretati da don Roberto.

Non si tratta di imitare don Roberto (il suo stile è irripetibile!), ma di cogliere il modo con cui egli ha operato. Basterebbero queste domande irrinunciabili: qual è il centro della mia vita per il quale continuo ad appassionarmi? Quale immagine di Dio rappresento al vivo attraverso il mio ministero? Con quale sguardo vado incontro ai miei fratelli, soprattutto ai più poveri?

A ciascuna di queste domande don Roberto ha saputo rispondere con il suo ministero, fondato non sulle tante cose da fare, sulle strutture da sostenere, ma solo rispecchiando la tenerezza di Dio per ogni uomo, chiunque egli fosse.
Vorrei ora ricordare per tappe la evoluzione spirituale che don Roberto ha vissuto progressivamente e che poi l’hanno portato a definirsi in quell’immagine finale di prete che tutti abbiamo potuto costatare.
In un primo momento, chiedendo di trasferirsi dalla parrocchia di Lipomo, don Roberto poteva apparire “un prete in fuga” dai sempre più logoranti impegni pastorali che si riscontrano in ogni parrocchia.


Egli, tuttavia, non è scappato dalla parrocchia perché non credeva nella fecondità dell’azione parrocchiale, o perché ha preferito aderire a un progetto elaborato dal solo suo estro personale, coltivando una politica individualistica del “fai da te”. In realtà non si è trattato di una autocandidatura la scelta di abitare a San Rocco. Don Roberto ha saputo sviluppare un approfondimento della sua chiamata, frutto di una esigenza interiore, che egli ha saputo elaborare, in un paziente discernimento, qualificandola come “una vocazione nella vocazione” e che l’autorità della Chiesa madre ha accompagnato con prudenza e che poi, ma solo in un secondo tempo, ha confermato.

Come dice la lettera agli Ebrei, che abbiamo appena ascoltato, riferito a Gesù, anche don Roberto “imparò l’obbedienza da ciò che patì“. Si è abbandonato, cioè, alla volontà del Padre man mano che si è appropriato del suo modo personale di essere pastore. Egli ha voluto condividere dal di dentro e più da vicino, in modo stabile, le sofferenze degli altri, i drammi, le solitudini, soprattutto di quelli che la società scarta, quegli “ultimi” che non interessano a nessuno, a cui nessuno bada, ma in cui Gesù stesso si identifica e che ci precedono nel regno dei cieli. Don Roberto si è dedicato a tempo pieno verso queste categorie di persone, senza tuttavia estraniarsi dalla comunità, anzi attirando altre persone, tra cui giovani volontari, desiderosi di condividere un servizio d’ amore con i poveri.

Solo in un secondo tempo, osservando con uno sguardo più attento il suo stile di vita, soprattutto il suo modo tipico di rapportarsi con le persone, chiunque fossero, emerge in don Roberto l’immagine cara a papa Francesco di pastore “con l’odore delle pecore”, e non solo di quelle al sicuro, all’interno del recinto, sempre più poche, ma anche di quelle all’ esterno, inquiete e sole, sprovviste di certezze, oltre che di beni, spesso male odoranti, che nessuno avvicinerebbe e a cui nemmeno regalerebbe uno sguardo di amicizia e di comprensione.

“Dalle cose che patì”, ossia da una immersione quotidiana nei vari drammi della gente, da una condivisione delle fatiche e delle loro ferite, che custodiva nel suo cuore, don Roberto ha subìto una trasformazione radicale, ha sviluppato una “seconda chiamata, che lo ha portato a piegarsi a tempo pieno sugli altri con occhi di compassione e di misericordia, con uno sguardo sempre benevolo e lieto, e mai di giudizio.


Certo, a prima vista, don Roberto poteva sembrare uno sprovveduto, incurante dei pericoli, un prete fuori dagli schemi ordinari, che non ambiva una visibilità, poco interessato ai progetti per i poveri, ma desideroso di stare con i poveri, a quali sapeva manifestare una delicata vicinanza, una amicizia sincera e fraterna, radicata in Dio.

Dalla persona di don Roberto emanava subito una serenità pacificante: è l’impressione generale che in questi mesi è stata più volte confermata. Il suo sguardo era attraente perché sempre lieto, di una letizia, però, fondata sulla fede, non su un semplice entusiasmo giovanile. Aveva imparato ad entrare con immediatezza in relazione con le persone, chiunque fossero.  Soprattutto utilizzava bene il suo tempo, perché ogni persona potesse sentirsi amata e preziosa, proprio come lo sguardo di Dio che si china su ciascuno con premura paterna. Don Roberto non conosceva la parola “fretta”, ma nello stesso tempo il pensiero era costantemente rivolto a Gesù, in una preghiera continuata.

Una delle sue ultime parole, ferito a morte, fu, al dire di chi lo sollevava, la parola “grazie!”, espressione con cui ricambiava l’amore tenero che aveva ricevuto e che egli aveva saputo moltiplicare e diffondere. È il risultato di una vita tutta fondata sull’amore, come sottolinea Sant’Agostino: “L’amore che hai dentro di te costituisce il valore della tua stessa vita” (Sermo 34,7).