Vi raccontiamo la storia di un gruppo di profughi ucraini accolti a Pellio Superiore in Valle d’Intelvi per un periodo di vacanza.
«Per i nostri bambini questi giorni sono stati speciali perché hanno trovato un posto sicuro in cui provare a dimenticare le paure che hanno vissuto». Roman ha la voce calma e il sorriso appena abbozzato sulle labbra mentre ci racconta di questi dieci giorni trascorsi a Pellio Superiore insieme ad alcune famiglie ucraine in arrivo dalla Romania, dove sono rifugiate, per vivere un breve periodo di vacanza.
Incontriamo Roman nel refettorio di quella che una volta era la casa parrocchiale di San Giorgio in alto al paese. All’esterno i bambini giocano nel piccolo giardino e sulla scalinata della chiesa. Seduti insieme a noi ci sono alcuni dei volontari che in queste settimane si alterneranno per garantire l’accoglienza di 66 profughi, per lo più famiglie con bambini, divisi in tre differenti turni. Le prime 22 persone sono arrivate in Valle d’Intelvi lo scorso 5 giugno per ripartire il 16 giugno quando a dar loro il cambio è arrivato un secondo gruppo.
A raccontarmi la genesi di questa piccola grande avventura è Giovanni Ambrosi di Albate storico volontario dell’associazione “Bambini di Chernobyl – Basso Lario Occidentale” da anni attivo nell’accoglienza, per periodi di vacanza, di bambini provenienti dalla Bielorussia.
Ma Giovanni fa anche parte degli “autisti” che da ormai tre mesi fanno la spola tra Como e l’est Europa per portare aiuti umanitari ai profughi dentro e fuori l’Ucraina. Un movimento nato in modo spontaneo, dal basso, che è andato progressivamente strutturandosi mantenendo come luogo di coordinamento quell’oratorio di Rebbio a Como da cui partì il primo viaggio. È proprio durante una di queste spedizioni che Giovanni fa visita alla città di Oradea, nel nord della Romania, dove incontra Nicu Gal impegnato, insieme a sua moglie e alla sua famiglia, nella Fondazione “People to people” attiva da anni in progetti sociali nei confronti dei più fragili. «Insieme a Nicu – racconta Giovanni – abbiamo fatto visita ad alcuni centri in cui erano ospitati profughi ucraini e incontrato delle famiglie a cui periodicamente forniva degli aiuti».
Il passo successivo è stato contattare don Andrea Della Monica, parroco di Pellio, che già in passato aveva dato disponibilità per ospitare gruppi di bambini provenienti dalla Bielorussi a San Giorgio. Ottenuto l’ok del parroco, insieme a Luca Chiesa e ad altri volontari, Giovani si attiva per garantire non solo uno spazio accogliente, ma per offrire proposte e momenti di svago rivolti specialmente ai bambini e ai ragazzi.
«La nostra idea – racconta Ambrosi – non è mai stata quella di mettere semplicemente a disposizione una struttura, ma di passare del tempo con loro creando uno scambio positivo tra queste famiglie, davvero numerose (la famiglia di Roman ha 8 figli e la moglie in attesa del nono), e quelle di tanti volontari che passano da qui per dare una mano o semplicemente per stare un po’ insieme. Abbiamo provato ad offrire loro l’opportunità di conoscere le nostre montagne, il lago e anche un po’ conoscere se stessi».
Roman e la moglie Irina ci raccontano della loro fuga dalla città di Cherkasj, a circa 200 km a sud di Kiev. «Siamo partiti nelle prime settimane di guerra per mettere in salvo i nostri figli – raccontano – e da allora abbiamo trovato rifugio a Oradea». Fortunatamente, vista la famiglia numerosa, Roman riesce a lasciare l’Ucraina (da cui gli uomini da 18 a 65 anni non potrebbero uscire) e ora segue con apprensione le notizie che arrivano dal Paese. «Purtroppo – aggiunge l’uomo – per me è difficile immaginare un rientro non solo perché la guerra in tante regioni continua, ma perché in Ucraina i prezzi sono alle stelle e, in alcune zone, si fa persino fatica a trovare cibo. Per questo con mia moglie abbiamo deciso di restare in Romania almeno fino a quando la guerra non sarà davvero finita e la situazione stabilizzata. Ho iniziato a cercare lavoro e vorrei provare a costruire una vita lì».
Pur nella bellezza di questa esperienza Giovanni non si illude: non bastano pochi giorni per dimenticare la precarietà che contraddistingue la condizione del profugo, qui come altrove. Eppure c’è una medaglia che il volontario conserva come un regalo prezioso: «Ho in mente – conclude – i volti di alcuni dei bambini al loro arrivo: gli occhi tristi, spenti, sempre bassi a fissare il pavimento. In questi dieci giorni li ho visti accendersi di nuovo, illuminarsi di fronte ad un fiume, alle rocce, ad un gioco fatto insieme. Questo certamente non cambierà la sofferenza della loro situazione, ma fosse anche solo per questo penso ne sia valsa la pena».