Si racconta nella suggestiva cornice del Santuario di Valpozzo, durante la giornata organizzata dal Centro missionario lo scorso 2 luglio, don Ivan Manzoni, fidei donum della Diocesi di Como in Perù rientrato definitivamente in Italia dopo quasi dieci anni di missione.

«Di questi quasi dieci anni passati in Perù quello che mi resterà di più è sicuramente la bellezza di stare con la gente. Lasciare loro, la comunità, è stata la cosa più difficile», racconta il sacerdote nativo di Verceia, già vice-rettore del nostro seminario diocesano, che aggiunge: «Era per me tempo di tornare, ma devo dire che la cosa più bella è stato vedere, nel passaggio di consegne tra me e il nuovo parroco di Fatima (la comunità dove don Ivan ha passato gli ultimi anni in missione insieme ad un sacerdote peruviano, ndr), come la vera protagonista fosse la comunità stessa. Di come questo passaggio fosse accompagnato dalla comunità, non solo dal punto di vista pastorale ma anche burocratico ed economico. Questa è per me la soddisfazione più grande. Vedere persone, che faticavano a sentirsene parte, arrivare a farla propria è stato qualcosa di prezioso».

Nonostante un oceano di distanza don Ivan non dimentica la sua gente e le difficoltà quotidianamente. Problemi e fatiche aggravate dalla pandemia.

«Purtroppo devo ammettere che in questi dieci anni la situazione alla periferia nord di Lima non solo non è migliorata ma è persino peggiorata. L’unica differenza, in positivo, è qualche striscia di asfalto in più, ma per il resto la situazione sociale si è deteriorata: il numero di quanti vivono in condizioni di povertà è aumentato e sono sempre più i peruviani che tentano di arrangiarsi con quello che noi chiamiamo lavoro informale», racconta il sacerdote.

«La pandemia – continua – non ha fatto che peggiorare una situazione già difficile. Pensate cosa possa voler dire impedire di uscire di casa a chi, ogni santo giorno, deve inventarsi il modo di mettere qualcosa nel piatto!».

Don Ivan racconta gli sforzi nel tentativo di stare vicino alla propria gente, anche sfidando le restrizioni. «Non da solo – spiega il missionario -, ma con il gruppo socio-caritativo della parrocchia abbiamo fatto davvero di tutto: distribuito medicine, bombole di ossigeno, cibo…siamo andati persino di casa in casa con il saturimetro per controllare le condizioni di salute delle persone». Per non parlare del carcere, di cui don Ivan era cappellano: «Lì la situazione era tragica. All’inizio della pandemia c’era un unico termometro per 2500 detenuti. Poi, anche grazie agli aiuti della Diocesi di Como, siamo riusciti a dotare ogni reparto di un termometro e a rifornire, per quanto possibile, di medicine, ma il numero dei morti è stato alto. Nessuno sa realmente quante persone siano morte lì dentro».

Ma ovviamente non si può ridurre l’esperienza vissuta a queste difficoltà. «È stato bello in questi anni – conclude don Ivan – prima a San Pedro, poi a Fatima vedere crescere e costruirsi una comunità. Penso soprattutto al protagonismo dei laici, alle èquipe pastorali che mandano avanti la vita delle diverse cappelle che compongono la nostra comunità. Ho sempre cercato di dire loro: “Le cose dobbiamo deciderle e portale avanti insieme”. È questo forse il frutto maturo di questi anni spesi in Perù. La convinzione che essere missionari significhi lavorare non per costruire progetti, ma per costruire la comunità. Aiutando la gente a capire che il Vangelo può e deve essere vissuto lì dove sono».