A guardare distratti i gesti con cui asciugano i bicchieri e le tazze dietro al bancone del bar dell’oratorio potrebbero sembrare degli animatori pronti per un’altra giornata di Grest. Invece la loro è tutta un’altra storia. Lo si capisce subito ascoltando il suono della loro voce e soffermandosi sui loro lineamenti di ragazzi provenienti da Paesi lontani. Sono alcuni dei trentadue minori stranieri non accompagnati attualmente ospitati dalla parrocchia di Rebbio perché, parafrasando un brano di Vangelo, per loro non c’era posto nelle comunità di accoglienza.

Una nuova ondata
È dalla primavera scorsa che la parrocchia alle porte della città è tornata ad essere l’epicentro di un flusso così costante di minori soli. Numeri che sono andati via via crescendo nel corso dei mesi come racconta a Il Settimanale il parroco, don Giusto Della Valle. «I primi arrivi di questa nuova ondata – racconta il sacerdote, incaricato diocesano per la Pastorale dei Migranti – risalgono alla primavera ma è durante l’estate e negli ultimi mesi che gli arrivi sono diventati sempre più frequenti». Complessivamente nel corso del 2022 sono transitati da Rebbio 250 minori stranieri non accompagnati.

Un dato che conferma i numeri in crescita diffusi dal Viminale: i minori stranieri non accompagnati sbarcati in Italia nel corso del 2022 sono stati 13.386, più di tremila in più rispetto ai 10.053 del 2021 e quasi quattro volte i 4.687 del 2020.

«A portare i ragazzi da noi – continua don Giusto – è quasi sempre la Questura che, dopo averli identificati, ce li affida temporaneamente in attesa del loro collocamento, a cura del Comune di Como, in una comunità per minori». Almeno questa dovrebbe essere la teoria, ma la pratica è ben diversa perché il Comune stesso – che più volte si è appellato negli ultimi anni a Prefettura e Ministero dell’Interno – fatica a trovare posti liberi. «Purtroppo – spiega il sacerdote – le comunità presenti non solo nel comasco, ma in tutto il territorio della Lombardia sono in forte sofferenza a causa di una carenza cronica di posti e, dunque, quella che dovrebbe essere una permanenza temporanea di pochi giorni si tramuta in una sosta di alcuni mesi».

Un tempo delicato soprattutto per quanti sono a ridosso della maggiore età.

«La maggior parte dei minori accolti a Rebbio ha tra i 15 e i 17 anni – spiega don Giusto – e per i più grandi è ancora più difficile trovare una comunità disposta ad accoglierli perché dopo pochi mesi, con il compimento dei 18 anni, perderebbero il diritto a restarvi. Molti di loro finiscono così per trovarsi in un limbo e sono presto costretti ad attivare la normale richiesta di asilo come adulti, con tutte le difficoltà conseguenti».

Non è un caso, dunque, che all’oratorio di Rebbio, oltre ai trentadue minori presenti, ci siano almeno una ventina di neo maggiorenni che restano “bloccati” non avendo molte altre possibilità. Per loro, come per i minori, grazie al contributo di decine di volontari, si sono attivate una serie di progettualità che vanno dall’insegnamento della lingua italiana, tre volte a settimana, allo sport (calcio e rugby). «Grazie ad una rete di enti, associazioni e singoli volontari, costruita negli ultimi anni – continua don Giusto – proviamo a dare a questi ragazzi alcuni strumenti che possano accompagnare il loro percorso di integrazione: la maggior parte di loro sono, infatti, ragazzi egiziani, tunisini e marocchini con l’idea precisa di restare in Italia e provare a costruire qui il loro futuro. Per questo non ci si può limitare a dar loro un pasto e un tetto. Diverso è il discorso dei minori afghani, altra nazionalità molto presente, che restano giusto il tempo di una notte o poco più e proseguono il loro viaggio verso il nord Europa».

Ma chi sono questi ragazzi e cosa li ha spinti a mettersi in viaggio? Per don Giusto sono tutti alla ricerca di un’opportunità.

«Penso in particolare ai minori egiziani – racconta il sacerdote – che arrivano qui passando dalla Libia: hanno speso tra i cinque e i sette mila euro per il viaggio e hanno vissuto l’esperienza dei campi in Libia. Per le loro famiglie sono un investimento sul loro futuro e su quello dei loro fratelli e sorelle rimasti in patria. Purtroppo fanno parte di un meccanismo più grande che, per mancanza di alternative, finisce per metterli nelle mani dei trafficanti. Di fronte a questo dovremmo farci delle domande: come mai nonostante accordi, motovedette, finanziamenti, dalla Libia si continua a partire? Forse perché – come ha denunciato da qualche inchiesta giornalistica – vi è collusione tra chi organizza i viaggi e chi prende i soldi teoricamente per evitarli?».