Credo non ci possa essere spot migliore per la missione del sorriso di Camilla quando racconta delle nonnine che, ogni sera, le portavano il tè all’uscita dell’ambulatorio della parrocchia di Nuestra Señora de Fatima in Perù. O quando parla di Mila, la giovane assunta dalla parrocchia di San Pedro per seguire le questioni sociali, e di Modesta la tuttofare della casa parrocchiale. Incontriamo Camilla Quadri, ventitre anni, all’Ufficio missionario diocesano, a pochi giorni dal suo rientro in Italia, avvenuto l’8 novembre scorso, dopo nove mesi passati nella missione diocesana. Lei, giovane ostetrica, è stata la prima laica ad aver vissuto per un periodo così lungo insieme ai nostri missionari fidei donum: don Savio Castelli, don Roberto Seregni e don Ivan Manzoni. Camilla era partita il 7 febbraio di quest’anno con l’idea di restare in Perù per un periodo di sei mesi, ma la partenza è stata rinviata fino a pochi giorni fa.
A pochi giorni dal tuo arrivo come giudichi l’esperienza nella missione?
Il giudizio è più che positivo. è stata un’esperienza bellissima: penso soprattutto all’accoglienza preziosa e bella che ho ricevuto da parte della gente. All’ostetrica con cui ho lavorato per sei mesi, affiancandola nel suo lavoro al policlinico e che tanto mi ha insegnato. è stata un’esperienza ricchissima, ma non facile perché ti trovi a raccogliere le storie di donne vittime del machismo insito nella società peruviana. Donne, ma anche adolescenti di 14 e 15 anni che sono picchiate, abusate. Ricordo una ragazzina di quindici anni che aveva subito violenza ed era venuta per un controllo. Lei voleva sporgere denuncia, ma suo fratello si è opposto perché non voleva dare scandalo.
Qual è stata la cosa più difficile di questi mesi?
Diversamente da quanto si potrebbe pensare non ho trovato molte difficoltà nell’ambientarmi. Perché nonostante le differenze linguistiche e culturali – ci sono elementi della mentalità peruviana che un Europeo non potrà mai arrivare a capire fino in fondo – l’accoglienza da parte della gente è tale da far cadere queste barriere. La difficoltà più grande è stata, invece, quella di accettare le difficoltà personali incontrate, combattere contro la mia testardaggine e il mio orgoglio. Sarei ipocrita se dicessi che in questi nove mesi non ho mai pensato di tornare a casa, è un pensiero che mi ha accompagnato per un bel po’ di tempo, ma posso anche dire che, negli ultimi giorni, una parte di me continuava a ripetere: “Non partire”. E poi c’era la gente in Italia che mi ha aiutato moltissimo. Per tutti questi mesi ho sentito un grande affetto da parte di chi avevo lasciato in Italia e questo mi ha fatto sì che non mi sentissi sola.
Che consiglio daresti ad un giovane che volesse vivere un’esperienza come la tua?
Per prima cosa di partire senza aspettative, affidandosi completamente. E poi la cosa più importante: mai decidere di partire per scappare da qualcosa. Non solo perché quei problemi li ritroverai, magari amplificati, al ritorno, ma perché quegli stessi problemi ti seguiranno ovunque vai. è necessario partire con la serenità nel cuore, perché la solitudine non farà che amplificare ogni eventuale difficoltà.