Il 20 gennaio di 19 anni fa, era un pomeriggio invernale del 1999 quando, per don Renzo Beretta, parroco di Ponte Chiasso, colpito a morte per mano di un extracomunitario cui aveva prestato soccorso, si schiudevano le porte del Cielo. Un episodio che scosse in profondità l’intera comunità comasca. Il primo a soccorrere don Renzo fu l’allora vicario don Giovanni Meroni, oggi arciprete di Castiglione Intelvi, Cerano, Dizzasco e Muronico.

La chiesa di Ponte Chiasso

Nei giorni scorsi don Giovanni ci ha fatto pervenire una lettera che rompe un silenzio durato 19 anni, un vortice di emozioni mai sopite che ci riportano a quei tragici giorni. Ne pubblichiamo qualche estratto. Il testo integrale è disponibile sul Settimanale numero 4.

“… nei primi giorni di novembre ho rimesso piede nella chiesa di Ponte Chiasso (dopo quasi 17 anni) per partecipare al funerale di un carissimo parrocchiano che è andato in Paradiso inaspettatamente e improvvisamente… Sono entrato in quella chiesa completamente ristrutturata, e nel salire quelle scale mi sembrava di vedere lì don Renzo. Ho fatto una fatica enorme a salire quegli scalini. Mi sono tornati alla mente (ma quando mai mi hanno abbandonato) gli anni che ho passato come vicario… Gli anni più belli della nostra vita a cui sono seguiti i mesi più terribili della nostra vita, che hanno lasciato un segno indelebile in tanti di noi: quell’ora terribile delle 15.35 di quel 20 gennaio, e tutto quello che ne è conseguito, il vescovo Alessandro che corse all’ospedale Sant’Anna, le volanti della polizia di Stato (mi sembra ancora di sentirne il suono), i Carabinieri, le indagini che terminano in tempi ultraveloci, il riconoscimento dell’assassino, la decisione di non dire a nessuno che per don Renzo non c’era più nulla da fare e che quindi si decide con una lucidità estrema, dettata solo dal Signore, con il Comandante dei Carabinieri di portarlo all’esterno della chiesa in barella come un “normale” ferito; poi le critiche, le parole inutili, i giudizi feroci per posizioni che in quel momento si dovevano prendere, i funerali in Cattedrale, la sepoltura al cimitero di Monte Olimpino nel quale, mentre veniva calato nel loculo letteralmente, mi è mancata la terra sotto i piedi, la chiusura della Caritas nei giorni seguenti perché tutti coloro che erano assistiti dal don Renzo, vedendo chiuso il luogo dove venivano ospitati e accolti, si erano riversati a Como creando non pochi problemi. E gli occhi dei miei parrocchiani che in quei giorni si incrociavano e si riempivano solo di lacrime, pieni di tristezza, di smarrimento, di paura, di rabbia (perché, come sempre, si parla, si parla, si critica e nessuno muove mai un dito, e questa volta, e quella volta un prete aveva dato la vita fino a morire), occhi pieni di un dolore che forse non è ancora passato, dove si deve ancora capire, dove si deve approfondire, dove però non si deve dimenticare…

…Ricordo l’umanità e l’attenzione della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri nei mesi a seguire. Sull’altare, incastonata nel porfido, ho visto una mattonella del pavimento della casa parrocchiale che quel 20 gennaio era però sporca di sangue, l’ho notata con grande meraviglia e con grande ammirazione. È la memoria viva…

…Un po’ di nostalgia mi assale in questi giorni. Nostalgia che non è malinconia, è pane in forma di fame. Tutto è Grazia! Così ha sempre affermato e testimoniato don Renzo, facendo il prete, senza troppi “fronzoli”, senza nessuna telecamera, senza mai apparire alle luci della ribalta, senza alcuna dichiarazione eclatante. I gesti lo erano, ma nel più assoluto silenzio, gesti accompagnati dall’Amore al Suo Signore perché la carità sbandierata non è carità, è puro protagonismo. “I poveri sono una cosa seria”, mi ripeteva quando non ci trovavamo allineati sulle stesse posizioni. Un prete normale, come il suo Signore lo ha chiamato a servire la nostra Chiesa diocesana…