Giovedì 13 giugno a Como la Caritas diocesana e Ipsia (Ong promossa dalle Acli) promuovono una serata per conoscere quanto avviene lungo la cosidetta Rotta Balcanica percorsa, ancora oggi, da migliaia di migranti.
Una via ribattezzata “Rotta Fantasma” perché poco conosciuta dall’opinione pubblica, come poco conosciute sono le condizioni in cui uomini, donne e famiglie provenienti da diversi Paesi del mondo (in particolare Pakistan, Afghanista e Iraq) si trovano a vivere tra respingimenti, violenza e mancanza di accoglienza.
Ospite della serata sarà Silvia Maraone, coordinatrice dei progetti per i migranti di Ispia e Caritas lungo la Balkan Route.
Di seguito vi riproponiamo il servizio scritto da Michele Luppi sul numero 10 del Settimanale pubblicato il 7 marzo scorso al rientro da un viaggio al confine tra Bosnia e Croazia.
C’è chi tra gli addetti ai lavori definisce il Bira come il peggior centro per migranti di tutta la Bosnia, tra i peggiori dell’intera Rotta Balcanica. Provate ad immaginarlo: una vecchia ditta abbandonata di frigoriferi, fatta di grandi capannoni di cemento affiancati l’uno all’altro a creare un’area industriale di oltre venti mila metri quadrati. All’interno, tra muri scrostati o forati, e scarsa illuminazione, i migranti dormono a gruppi di 120 per tenda, mentre a famiglie e minori è riservata un’ala con dei container da sei posti ciascuno. Complessivamente nel centro – aperto dalla Organizzazione Mondiale delle Migrazioni nell’autunno scorso per cercare di tamponare una situazione di emergenza al confine tra Bosnia e Croazia – sono ospitati oltre duemila persone, molti di più rispetto ai 1500 della capienza massima prevista.
Ci troviamo a Bihac, capoluogo del cantone di Una-Sana, alla frontiera nord della Bosnia ed Erzegovina, confine caldo d’Europa. E’ da qui che passa la “rotta bosniaca”, la via percorsa dai migranti per arrivare in Europa aggirando l’irrigidimento dei controlli lungo il confine serbo-croato e serbo-ungherese. Ed è qui che il Settimanale è arrivato in visita, alla fine di febbraio, al seguito di una delegazione di Caritas Lombarda. Un viaggio da un confine, quello italo-svizzero, ad un altro per capire come potranno evolvere i flussi migratori nei prossimi mesi e per visionare i progetti sostenuti grazie alla Quaresima di Fraternità. Non è un mistero infatti che, alcuni dei migranti in arrivo a Como, anche nelle ultime settimane, siano passati proprio da lì.
Stando ai dati ufficiali sono stati 24 mila i migranti in transito in Bosnia nel corso del 2018. Sono per lo più uomini e ragazzi soli, provenienti da Pakistan, Afghanistan e Iran e, in misura minore, da Marocco, Tunisia e India, ma ci sono anche famiglie siriane e irachene con bambini piccoli. Arrivano in bus o a piedi, nonostante il freddo e la neve che ancora ricopre le montagne e aspettano il momento buono per attraversare il confine: c’è chi ci prova da solo, magari facendosi aiutare dalle mappe sullo smartphone e dai consigli di chi è già passato di lì, e chi invece si affida ai trafficanti, il cui mercato non è mai stato così florido da queste parti. I migranti lo chiamano “game” (gioco) perché, per la maggior parte di loro, il tentativo si conclude nel punto esatto da cui sono partiti. Un macabro gioco dell’oca che spesso porta con sé danni fisici e psicologici.
“C’è chi torna al Bira con ferite, sopratutto ai piedi, escoriazioni, tagli, principi di congelamento”, confida Selam Midžic segretario locale della Croce Rossa. Colpa delle ore passate nei boschi, dell’attraversamento del fiume Una, ma anche dei respingimenti collettivi da parte della polizia croata: una prassi vietata dalla legislazione europea, ma praticata qui come in altre frontiere.
“Dall’accordo tra Turchia e Unione europea del marzo 2016 i numeri di persone in transito nei Balcani si sono notevolmente ridotti, ma il flusso non si è certamente arrestato e la Bosnia resta il punto con più chilometri di confine dove poter attraversare”, spiega Silvia Maraone, coordinatrice degli interventi lungo la Balkan Route per Caritas e Ipsia (ONG legata alle Acli), non nascondendo la preoccupazione per quanto potrà accadere nei prossimi mesi.
“Guardando alla chiusura della rotta del Mediterraneo Centrale – confida -, c’è il rischio che la pressione nei Balcani torni ad aumentare”.
Un’eventualità a cui il governo di Sarajevo non sembra volersi preparare rifiutando di farsi carico della gestione dei centri già esistenti nel Paese, tutti affidati dall’IOM (Organizzazione Mondiale per le Migrazioni). A questo si aggiunge il risentimento crescente delle comunità locali: le autorità di Una-Sana, ad esempio, hanno minacciato di chiudere tutti i centri presenti nel cantone se la capienza massima non verrà rispettata e hanno moltiplicato i trasferimenti dei migranti dalle zone di confine verso Sarajevo. Così, da alcune settimane, gli ingressi al Bira sono, almeno sulla carta, bloccati, come conferma il responsabile del campo Mite Cilkovski, facendo crescere il numero di quanti sono costretti a passare la notte all’aperto.
Così al fianco dei migranti, oltre all’IOM, restano solo le ONG locali e internazionali insieme alla rete Caritas.
Realtà come Ipsia BIH che proprio al Bira è riuscita ad aprire un “Social Café”, sull’esempio di quello attivo dal 2017 a Bogovadja. Il chiosco arriva a servire ogni giorno – nelle tre ore di apertura – oltre quattrocento tazze di Caj, come viene chiamato il té in Turchia e in altri Paesi di Asia e Medio Oriente. Un progetto che gone del sostegno, tra gli altri, anche della Caritas della diocesi di Como.
“Abbiamo iniziato con alcuni termos – ci racconta Greta Mangiagalli, operatrice di Ipsia a Bihac – servendo le prime tazze di caj alla vigilia di Natale dello scorso anno, poi sono arrivati i tavoli, un ping pong, i giochi in scatola. Il Social Café è l’unico spazio dentro al Bira dove ti ho concesso di stare tranquillamente, di sederti e chiacchierare”. Si tratta di un “presidio” gli fa eco Michele Turzi, volontario della Caritas di Mantova, “dove sai di poter essere ascoltato”.
“Per noi – conclude Silvia Maraone – è fondamentale lavorare all’interno di un campo come il Bira proprio per le condizioni in cui si trovano le persone. Un intervento come il social café è assolutamente importante per mantenere la loro dignità. Non si tratta di dare una tazza di té, ma di riconoscere gli individui come persone”.
Si sono fatte le 13, il chiosco deve chiudere. Alcuni migranti aiutano a sistemare i tavoli di quello che sentono un po’ come il loro café. Andiamo verso l’uscita camminando tra le tende, immersi nel grigiume di questo grande centro, e portiamo con noi un senso di impotenza di fronte a questa umanità in viaggio. Guardiamo per l’ultima volta i volti dei migranti seduti all’esterno delle tende e ci appaiono come sospesi tra la speranza di potercela fare e la rassegnazione di essere finiti in un limbo: troppo lontani da casa per tornare indietro e troppo stanchi per andare avanti. Ma è solo questione di attimi: il confine è troppo vicino, tutti loro ci riproveranno. Questo è sicuro. Fosse anche l’ultimo passo dalla loro vita.