Un anno fa, il 22 febbraio 2021, moriva in un attacco armato al convoglio del Programma Alimentare Mondiale dell’Onu su cui viaggiava nell’est della Repubblica Democratica del Congo l’ambasciatore italiano, Luca Attanasio. A cadere con lui sotto i colpi di una delle tante bande attive nella regione del nord Kivu anche il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista congolese Mustapha Milambo.
In occasione di questo primo anniversario, mentre ancora si attende di far piena luce su quanto accaduto, l’editore Piemme ha dato alle stampe il libro “Luca Attanasio, storia di un ambasciatore di pace” (176 pagine, 17,90 euro). A firmare la pubblicazione è il vaticanista del Gruppo Mediaset, Fabio Marchese Ragona, che ne ha tratteggiato la storia grazie ai racconti di chi ha camminato insieme a Luca fin dai primi anni della sua vita a Limbiate, provincia di Monza e Brianza. Un’opera arricchita dalle parole della moglie di Luca Attanasio, Zakia Seddiki.
“Fare l’ambasciatore è un po’ come una missione. Quando sei rappresentante delle istituzioni hai il dovere morale di dare l’esempio”. Questa è una frase spesso usata per raccontare la figura di Luca Attanasio e lo stile del suo servizio. È proprio così? Che senso dava al termine “missione”?
«Sono d’accordo, Luca Attanasio viveva come una missione il ruolo che ricopriva. E cercava di portarla avanti nel migliore dei modi, prendendo a cuore le storie degli italiani che incontrava lungo il suo cammino, dagli imprenditori ai religiosi missionari. Non faceva differenze, tutti per lui erano uomini e donne sullo stesso piano, dal ministro al centralinista. Il tema della dignità della persona umana, del rispetto che si deve a chiunque si incontri erano per lui come una bussola. Nel libro, uno degli ambasciatori intervistati racconta che Luca stava davvero rivoluzionando il modo di fare l’ambasciatore: dava a tutti del “tu”, si metteva a disposizione e soprattutto ascoltava i bisogni di tutti coloro che bussavano alla sua porta. Un “eroe” italiano al servizio degli italiani. La sua missione era questa».
Quanto ha influito nella sua formazione la frequentazione dell’oratorio, della parrocchia e il suo vivere la fede?
«Tantissimo! Parliamo di un ragazzo cresciuto in provincia, che frequentava l’oratorio e che amava i raduni della comunità di Taizé. Credo che questi in particolare, così come i ritiri spirituali e la partecipazione alle Giornate Mondiali della Gioventù, siano stati fondamentali per la sua formazione. Basti pensare che nel 2000, a 23 anni, durante un ritiro d’Avvento a Merate con una trentina di amici e con il direttore dell’oratorio, stimolato dal sacerdote iniziò a riflettere su chi voleva essere “da grande”. Ed è in quel contesto che scrive una lettera a se stesso, pubblicata integralmente nel volume (trovate alcuni estratti qui sotto, ndr), in cui emerge il Luca più profondo, che si rifiuta di continuare a vivere in una “gabbia dorata”, decidendo di aprire quella porta e far entrare chi avesse bisogno. “Sii strumento di pace” si ripeteva. E si chiedeva anche: “Ma io, faccio abbastanza per Dio? Dedicagli più tempo. Ama perché tutto ciò che fai per puro amore, con cuore disinteressato, è sicuramente giusto. Ama, senza riserve, dando il meglio di te”.